martedì 12 dicembre 2017

L'intervento relazionale sistemico con l'adolescente.

di Silvia Vannucci, psicologa psicoterapeuta, socia e docente di CSAPR Prato.  


Interpretare con un modello lineare il comportamento sfidante e sintomatico del giovane paziente può esitare nella cronicizzazione iatrogena del disturbo, iniziando un inesorabile percorso di medicalizzazione, o nella rottura dell’alleanza terapeutica tra lo psicoterapeuta e l’adolescente, che perderebbe così una fondamentale occasione di cura e di salute.
L’adolescenza dei figli può essere il detonatore di una carica esplosiva accumulata negli anni da una coppia di genitori non abbastanza evoluta. La lettura relazionale di questa fase del ciclo della famiglia ci permette di intervenire in modo efficace sulla salute dell’adolescente, utilizzando la forza stessa dell’esplosione che egli agisce nel sistema attraverso il comportamento sintomatico.
Come psicoterapeuta formata al Centro Studi, con esperienza ormai quasi ventennale, ricevo le famiglie e gli adolescenti consapevole delle inside che i ragazzi ci presentano ma anche del loro potente e lucido punto di osservazione sulle fragilità dei grandi; succede che arriva la seduta familiare dove invito l’adolescente in difficoltà a sedersi accanto a me e insieme parliamo di quei due adulti problematici… poi ci salutiamo con l’impegno dei genitori di farsi carico delle proprie difficoltà, magari con l’aiuto di un eventuale altro psicoterapeuta. La psicoterapia prosegue con un adolescente finalmente libero di poter costruire e integrare la propria identità, che può guardare al mondo intorno, anziché vigilare come sentinella per i suoi: ciascuno ha ripreso il suo posto e tutti hanno partecipato alla magia della guarigione del paziente designato.



martedì 31 ottobre 2017

L’intervento sistemico relazionale a scuola

di Simona Gagliardi, psicologa psicoterapeuta, socia di CSAPR Prato.

La scuola rappresenta un sistema complesso, costituito da soggetti diversi per età, ruolo, competenze, professionalità, la cui convivenza spesso presenta delle problematicità e da cui possono emergere domande di cambiamento diversificate e non sempre consapevoli. Come professionisti possiamo, infatti, confrontarci con richieste provenienti dal contesto scolastico, a volte, ambigue o impossibili, che possono mettere alla prova le nostre competenze e esporre i nostri interventi a rischio di fallimento.
Nel corso degli anni di pratica professionale è stato possibile rispondere, per me e per le colleghe “sistemiche” con cui collaboro, a numerose richieste di intervento nel contesto scolastico partendo dall’analisi e dalla riformulazione della domanda. La formazione sistemico relazionale, infatti, rafforza ed arricchisce la possibilità di riformulare la domanda e ipotizzare l'intervento nell’ambito lavorativo non terapeutico ed in particolare rispetto alle richieste di intervento psicologico da parte degli Istituti Scolastici. (M.M. Togliatti, Tofani 1990; Palazzoli et Alt, 1976). Il modello sistemico è infatti un'epistemologia, prima di essere uno strumento di intervento nel micro-contesto della classe o della sede scolastica, un modo per conoscere il mondo e per “pensare” nuove soluzioni; come sostiene S. Cirillo "[…] se la nostra ottica sistemica è un modello interpretativo della realtà, una chiave di lettura, deve pur fornire degli strumenti di comprensione e di intervento anche nelle ”frange” non terapeutiche del nostro lavoro".
L’obiettivo dell’intervento sistemico relazionale, quindi, in un contesto scolastico è quello di costruire un intervento che, come avviene nella terapia della famiglia, utilizzi le informazioni, stabilendo fra esse collegamenti diversi, con l'aiuto e la collaborazione dei membri del sistema scolastico e, laddove possibile, di quello familiare, per giungere a nuove connessioni e interazioni, plausibili rispetto alla realtà già conosciuta, ma contemporaneamente contrastanti con essa, per offrire una visione alternativa e evolutiva della realtà. All’interno degli Istituti scolastici, con il gruppo docenti e con le classi è possibile, utile e necessario lavorare sistemicamente, per facilitare il cambiamento ed attivare risorse nuove, spesso proprio raccontando nuove storie.


L’INTERVENTO PSICOLOGICO NELLA SCUOLA UTILIZZAZIONE DELLE RISORSE DI UN SISTEMA COMPLESSO, COLLAB. E. GUIDA, NUOVA ITALIA SCIENTIFICA, 1986
BAMBINI DIVERSI A SCUOLA; BORINGHIERI 1974, 8 RISTAMPE; SECONDA EDIZIONE 1989.
BARBIERI M. L’INTERVENTO SISTEMICO NELLA SCUOLA. IN: ECOLOGIA DELLA MENTE 2002; 25, N° 2: 159-185.

BARBIERI M. LA CONSULENZA PSICOLOGICA NELLA SCUOLA ALLE FAMIGLIE CON FIGLI ADOLESCENTI. IN: IL VASO DI PANDORA 2006; 14, N° 2: 65-87.

BARBIERI M., GUERRINI A., MANFRIDA G. BAMBINI, ADOLESCENTI E ADULTI NELLA SCUOLA. IN: PSICOLOGIA E SCUOLA 2006-2007; 27, N° 132: 3-15.
CIRILLO S. (A CURA DI). IL CAMBIAMENTO NEI CONTESTI NON TERAPEUTICI. RAFFAELLO CORTINA EDITORE, MILANO, 199
M.M. TOGLIATTI, TOFANI 1990; IL GRUPPO-CLASSE SCUOLA E TEORIA SISTEMICO-RELAZIONALE
PALAZZOLI ET ALT, 1976 IL MAGO SMAGATO. COME CAMBIARE LA CONDIZIONE PARADOSSALE DELLO PSICOLOGO NELLA SCUOLA
L. MARTINOLI E C. RESSEGATTI “DIALOGANDO CON L'ASSENTE:COME INTERVENIRE IN ASSENZA DI UNA RICHIESTA TERAPEUTICA” RIVISTA DEL SERVIZIO DI SOSTEGNO PEDAGOGICO DELLA SCUOLA MEDIA, NO. 12, MARZO 1995, PAG. 23-30

L’INTERVENTO PSICOLOGICO NELLE SCUOLE: APPLIACAZIONE DEL MODELLO SISTEMICO AL CONTESTO SCOLASTICO A MARCIANO ECOLOGIA DELLA MENTE 1 2007

C CURONICI L BENESSERE A SCUOLA SI COSTRUISCE INSIEME: IL CONTRIBUTO DELL'APPROCCIO SISTEMICO Rivista del Servizio di sostegno pedagogico della scuola media – numero 19 2003

M. CIUCCI, S. SCAMPERLE, G. TODINI. "IL BAMBINO CON PROBLEMI SCOLASTICI. SCUOLA, FAMIGLIE, SERVIZI: DALLA CONTRAPPOSIZIONE ALLA COLLABORAZIONE". MARISA MALAGOLI TOGLIATTI, UMBERTA TELFENER, OP.CIT., P. 103.

giovedì 26 ottobre 2017

L'intervento nel contesto di tutela

di Alessandra Melosi, psicologa psicoterapeuta, socia e didatta di CSAPR Prato.


Il presente contributo prende spunto dalla mia esperienza come Supervisore presso il Centro Crisalide di Pistoia, servizio specialistico che si occupa di valutazione e cura di minori e delle loro famiglie nei casi di abuso, violenza e grave trascuratezza. Il Centro si ispira ad esperienze guida pioneristiche e di riferimento per tutti coloro che vogliono operare in questo ambito, come quella del Centro Aiuto al Bambino Maltrattato di Roma e del CBM di Milano.
Per riuscire a cogliere la complessità dei fenomeni legati alla trascuratezza, maltrattamento, abuso e mettere in atto efficaci strategie di intervento è fondamentale evidenziare il “gioco relazionale”, l’evoluzione trigenerazionale e l’esito che tutto questo ha avuto sullo sviluppo del figlio.
Un aspetto peculiare del lavoro in un contesto di tutela è l’assenza di una richiesta di aiuto spontanea da parte della famiglia, che giunge alla valutazione e all’intervento in seguito a provvedimenti del Tribunale.
Il terapeuta si trova ad utilizzare la richiesta della rete di tutela (Giudice, Servizi Sociali, Comunità per minori) per raccogliere materiale su cui lavorare. In questo contesto il terapeuta deve contrastare la negazione del problema e tentare di raggiungere il riconoscimento del danno inflitto ai figli da parte dei genitori. Per fare questo è necessario adoperarsi per costruire con loro una alleanza terapeutica e attuare interventi volti a connettere i comportamenti disfunzionali con le rispettive storie personali.
Questa prospettiva di intervento ha come obiettivo prioritario di preservare la relazione genitore - figlio, migliorandola ove possibile, ma anche di valutare e individuare per il minore, nel caso la recuperabilità genitoriale non sia possibile, soluzioni alternative stabili al di fuori della famiglia.

Alessandra Melosi


domenica 22 ottobre 2017

Psicologia dello sport e approccio sistemico relazionale

di Daniela Tortorelli, psicologa psicoterapeuta, didatta e presidente di Csapr Prato.

L’approccio relazionale permette di dare un senso al comportamento umano, dei singoli, delle coppie, delle famiglie e delle organizzazioni, perché insegna ad osservarlo nel contesto in cui si manifesta e offre strumenti di valutazione, lettura e intervento unici. Il pensiero circolare sistemico è solo una della possibilità che offre questo paradigma.
Quando ho conosciuto
il mondo della psicologia dello sport avevo già avuto una formazione relazionale; inoltre, ero stata un’atleta di alto livello. Per me è stato naturale usare in ambito applicativo le risorse e l’ottica sistemico-relazionale, perché il mondo dell’attività sportiva è fatto di relazioni che influenzano il benessere e il rendimento dell’atleta. L’approccio sistemico relazionale è stato per me un enorme valore aggiunto che ho integrato con gli strumenti di base comunemente usati in questa disciplina, che mi ha permesso di lavorare in realtà articolate e complesse come quelle del mondo sportivo in cui sistemi e sottosistemi si intrecciano e si influenzano reciprocamente, in realtà particolarmente articolate.
L’approccio relazionale è stato fondamentale nel fornire strumenti operativi e di valutazione sia per il mental training (concerne la possibilità di ottimizzare e talvolta migliorare la prestazione sportiva), sia per la promozione della salute e del benessere dell’atleta, della squadra, dei tecnici, delle famiglie, e della società sportiva.
Inoltre, lavorare relazionale mi ha permesso di ampliare le possibilità di intervento ad aree impensabili per uno psicologo dello sport che non conosce questo paradigma, estendendole anche a tutte quelle situazioni di confine con l’ambito clinico cosi frequenti nelle richieste di intervento sportivo.
Lo psicologo dello sport che si avvale del paradigma relazionale può cosi collocarsi come esperto del settore dotato di “una marcia in più” professionale, in quanto dotato di competenze psicoterapeutiche che lo mettono in condizioni di lavorare sia nell’area educativa che in quella della clinica sportiva, fino all’area delle organizzazioni, districandosi al meglio fra i vari tipi di richieste di aiuto.  

martedì 17 ottobre 2017

Sessuologia e modello sistemico relazionale.

di Silvia Grassitelli, psicologa psicoterapeuta, socia e docente di CSAPR.


Considero l'approccio sistemico-relazionale una chiave di accesso "universale" che mi ha permesso di entrare e orientarmi sin da subito in contesti di lavoro molto diversi: terapeutici e non, di gruppo e individuali, reti di lavoro e organizzazioni complesse. Un gran bel vantaggio!
Quello che però mi ha permesso di affrontare, varcata la soglia della psicoterapia, è la stretta connessione che i sintomi  hanno con la vita relazionale delle persone. È così che ho potuto apprezzarne davvero il valore terapeutico.
Molto presto nella mia esperienza clinica mi sono imbattuta con difficoltà legate alla vita intima, con i disturbi sessuali maschili, femminili e non solo di coppia. Sembrava un mondo a parte, in alcuni casi lontano da quello che avevo immaginato e da un lavoro possibile. Eppure interventi mirati e circoscritti o dalla dicitura iper specialistica, avevano spesso risposto all'urgenza e alla esasperazione dei pazienti, senza riuscire a dare risultati convincenti o duraturi nel superamento del disagio e delle difficoltà. Questo non rendeva certo le cose più facili, ma mi spingeva ad approfondire con gli strumenti a mia disposizione e ad addentrarmi nelle singole storie per capire cosa potevo fare.
Quello che man mano è diventato più chiaro è che anche la vita intima ha radici profonde nelle  relazioni piú significative. Per questo è connessa spesso alle difficoltà di svincolo, talvolta alle esperienze traumatiche di relazione, ma anche alla difficile ricerca della propria identità o al bisogno di stabilità personale. Ecco su cosa è necessario fare luce per costruire un cambiamento profondo e completo! 
Inaspettatamente l'ambito sessuologico è stato per me una strada di scoperte illuminanti. 

È andata proprio così.. ma credo che questo sia solo uno dei percorsi possibili per conoscere la forza del nostro modello.

venerdì 13 ottobre 2017

Il modello sistemico relazionale e il lavoro con le adozioni

di Chiara Benini, psicologa psicoterapeuta, didatta e socia di CSAPR Prato 

In campo adottivo il nostro lavoro è principalmente quello di preparare i genitori sia all'esperienza genitoriale che a quella adottiva, accompagnare la fase intermedia di avvicinamento, conoscenza e viaggio all'estero e sostenere le diverse componenti della famiglia nelle vicissitudini che seguono l'inserimento, con richieste che giungono da scuola, famiglie o adottati, talvolta anche molti anni dopo. Ci confrontiamo sia con aspetti profondi quali generatività,
identità, appartenenza, che con letture e decisioni prese a volte in contesti culturali molto diversi e che come tali vanno “tradotti” a chi qui li riceve. Spesso anche nella stessa coppia adottiva vi sono livelli di maturità e bisogni interni differenti, che devono essere visti nelle loro dinamiche relazionali sia in rapporto a ciascuna famiglia di origine, sia nell'attuale dinamica di coppia ed infine nel ripercuotersi sul funzionamento genitoriale e familiare; a volte è necessario aiutarli a fermarsi, rinunciare, altre incoraggiarle e sostenerle nel proseguire. Gestire separazioni, ricollocamenti e talvolta fallimenti, capire quali speranze per questi bambini siano realistiche e utili da coltivare e quando invece aiutare a rivedere i propri sogni è una responsabilità è grande hanno già avuto gravi ferite e un nostro errore può davvero pregiudicarne il futuro. Non di rado siamo chiamati a cambiare la lettura, cognitiva ed emotiva, di fatti e di relazioni non semplici, che muovono sentimenti molto profondi e spesso poco consapevoli, sia in chi come genitori e figli sono direttamente implicati, sia in chi con poca o nessuna preparazione è coinvolto: parenti, amici, istituzioni ma anche psicologi, pedagogisti, avvocati... In tutto questo il pensare in modo sistemico relazionale è fondamentale per non cadere in facili semplificazioni, per guidare il cambiamento riuscendo a vederne conseguenze e sfaccettature e giungere a soluzioni efficaci e rispettose di tutte le persone coinvolte, dei loro sentimenti e, non ultimo, delle realtà complesse che le circondano.

mercoledì 11 ottobre 2017

TERAPIA SISTEMICA CON LA PATOLOGIA CRONICA

di Chiara Contini, psicologa psicoterapeuta, socia e docente di CSAPR Prato.


Da alcuni anni, in qualità di psicoterapeuta, collaboro con l’Associazione Italiana Sclerosi Multipla (A.I.S.M) nella sezione di Prato, a contatto con pazienti che spesso combattono contro una profonda sofferenza psicologica, oltre a quella fisica inflitta dalla malattia. La sclerosi multipla è, infatti, una patologia a decorso cronico che altera profondamente lo stile di vita di chi ne è affetto e spesso causa ripercussioni su tutta la rete familiare e relazionale. Queste persone vivono, in seguito alla diagnosi, una fase di “lutto” che, come ci insegna Cancrini (1), da un punto di vista psicologico non è legato solo alla morte, ma è “l’insieme delle reazioni con cui si tenta di controllare il dolore legato alla perdita di qualcosa di importante”; queste persone “perdono” infatti la percezione di sé come persone normali e ciò si ripercuote spesso anche sulle loro relazioni, intra ed extra familiari. Diviene quindi indispensabile avere strumenti e capacità cliniche per lavorare anche in un ambito così complesso e delicato come quello della patologia cronica. Quando si lavora in terapia individuale con un paziente, il terapeuta sistemico sa bene quanto sia fondamentale avere ben chiaro nella mente il sistema di relazioni della persona che si ha di fronte e ritengo che ciò sia ancora più importante quando si ha a che fare con pazienti affetti da una patologia potenzialmente invalidante, quando il supporto di altri diviene essenziale. Nell’esperienza clinica con questi pazienti, mi sono accorta che il loro mondo relazionale è particolarmente delicato e spesso esposto a rischi proprio a causa della patologia, per certi aspetti forse anche maggiormente rispetto ai pazienti che quotidianamente riceviamo nel nostro studio. Avere una formazione sistemico relazionale mi permette di lavorare su più livelli (individuale, di coppia e familiare) in modo efficace e, in particolare con questi tipi di pazienti, l’attenzione agli aspetti relazionali diventa fondamentale se non vogliamo che la patologia li blocchi in schemi di relazione disfunzionali o che il loro ciclo di vita subisca una battuta di arresto, visto che spesso la SM diviene, sia per il paziente che per i familiari, la loro “realtà dominante quotidiana” (2), la lente attraverso la quale viene data una spiegazione a tutto, comprese le difficoltà relazionali. La versatilità dell’approccio sistemico e la sua applicabilità a più ambiti (come anche i gruppi di sostegno terapeutico con portatori di SM) rende tale approccio estremamente efficace e completo, permette di ottenere ottimi risultati, anche in situazioni difficili, delicate ed estremamente dolorose come quelle di persone condannate a convivere con una patologia per cui non è ancora stata trovata una cura.




  1. Cancrini L., Date parole al dolore. Milano: Frassinelli Editore, 1996
  2. Manfrida G., La narrazione psicoterapeutica. Invenzione, persuasione e tecniche retoriche in terapia relazionale. Milano: Franco Angeli Editore, 1998

martedì 10 ottobre 2017

L’approccio sistemico relazionale nella supervisione di progetti per migranti e richiedenti asilo

di Valentina Albertini, psicologa psicoterapeuta, socia e didatta Csapr.


Negli anni universitari, orientati alla psicologia dei gruppi e delle organizzazioni prima, e della psicologia sociale e di comunità poi, sembrava impossibile pensarmi a lavorare in ambito clinico: troppo individuo, troppo intrapsichico per me! Nel tempo ho però scoperto l’orientamento sistemico relazionale, rimanendone affascinata. Portava a sintesi tutto quello che fino a quel momento avevo amato: le dinamiche dei gruppi, le relazioni personali e sociali, il coinvolgimento di più attori nei processi di cambiamento, la non neutralità dello psicologo. Da quel momento qualcosa è cambiato, e immaginarmi psicoterapeuta non è stato più così difficile.
La promessa di ampia applicabilità del paradigma sistemico che tanto mi aveva fatta innamorare è stata dalla formazione successiva completamente mantenuta ed ho avuto ed ho tuttora la possibilità di utilizzare le competenze sistemiche in molteplici contesti (organizzazioni, associazioni di volontariato, aziende) dove nel tempo mi è capitato di fare consulenze e formazione.
Due anni fa, contattata da un ente che si occupa della gestione di Centri di Accoglienza Straordinaria per migranti e progetti per richiedenti asilo, ho iniziato l’avventura della supervisione degli operatori che lavorano in questo ambito.
L’approccio sistemico in questo lavoro è stato molto utile: mi ha infatti permesso di lavorare su tre livelli contemporaneamente: un livello individuale riguardante i vissuti personali degli operatori nel loro lavoro a contatto con le storie dei migranti, difficili e ad alto impatto emotivo; un livello relazionale del gruppo-colleghi, un luogo che, se funziona, può diventare un contenitore utile a prevenire il burnout degli operatori; un livello relazionale fra il gruppo operatori e l’esositema-associazione, all’interno del quale a volte possono crearsi frizioni o conflitti.
Avere una formazione sistemica in questo contesto è stato come avere più occhi per guardare un fenomeno complesso le cui dinamiche si sviluppavano a più livelli, e rappresentano in varie maniere un incontro fra culture differenti.

Ma la visione sistemica è, per sua natura, interculturale: noi sappiamo che già osservando un sistema ne facciamo parte, ed è la nostra chiave di lettura che condiziona le relazioni che si creano. Dopotutto, come dice l’antropologo Marco Aime, “la cultura non è il comportamento umano, ma la chiave che usiamo per leggerlo e interpretarlo”. E l’approccio sistemico dà proprio questo: una chiave di lettura e interpretazione delle culture che ogni sistema umano porta con sé.

lunedì 2 ottobre 2017

La Psicoterapia Individuale Relazionale Sistemica

di Erica Eisenberg, psicologa psicoterapeuta.  

Quando ero all’università di psicologia tutto mi pareva distante rispetto al mio desiderio di aiutare le persone, non riuscivo a vedere un modello di riferimento che fosse profondo e concreto allo stesso tempo ed abbastanza rapido per stare al passo con i tempi. Ho trovato tutto questo nella scuola di specializzazione dove mi sono formata, il Centro Studi ed Applicazione della Psicologia Relazionale di Prato.
Faccio terapie familiari e di coppia, ma prevalentemente terapie individuali da molti anni. Lavorare in terapia individuale in maniera sistemico relazionale significa affrontare i problemi dei pazienti sia su un piano sintomatico che su uno più profondo tenendo sempre in testa le loro relazioni importanti, le famiglie di origine, i compagni e le compagne, i colleghi, le amicizie. In tanti anni di lavoro ho visto che i pazienti necessitano di indicazioni concrete per gestire le relazioni problematiche: inoltre occorre mettere in collegamento le difficoltà che incontrano con tratti di carattere disfunzionali loro e di altre persone con le quali si trovano a relazionarsi, in modo che arrivino a modificare il loro stile relazionale con un cambiamento che sia protratto nel tempo. La terapia, anche in un setting individuale, è sempre popolata da tante persone collegate al paziente; la capacità di avere in testa i contesti con i quali ognuno di loro si confronta permette di aiutarlo concretamente per far sì che i suoi cambiamenti, che possono indurre delle perturbazioni nelle relazioni con altri, possano essere controllati e gestiti al meglio, basta pensare ai problemi legati allo svincolo ed alle resistenze spesso opposte dalle famiglie.
Mi colpisce poi molto la comune necessità dei pazienti di trovare un senso al perché i sintomi si siano manifestati proprio in un determinato momento. Probabilmente esprimono con questa ricerca il bisogno di trovare un senso a quello che succede, per tornare a sentirsi protagonisti della loro vita; in effetti capire la nostra storia, rintracciarne un senso nelle origini familiari e relazionali è una sana consapevolezza, una base sicura per andare avanti ed affrontare le turbolenze alle quali il mondo esterno mette inevitabilmente di fronte.
Infine, lavorare in modo sistemico in terapia individuale vuol dire lavorare continuamente con la nostra relazione con il paziente: attraverso la relazione terapeutica si realizzano quei cambiamenti nel suo carattere che poi si sedimentano in profondità e prevengono ricadute sintomatiche o consentono di gestirle attraverso la consapevolezza e gli strumenti acquisiti durante la psicoterapia.

E’ un viaggio bellissimo con il nostro paziente, può avere una durata molto breve se l’obiettivo è risolvere la situazione sintomatica ed un pò più lungo, ma sempre con tempi ragionevoli ed incontri meno frequenti, se la psicoterapia mira ad un cambiamento di aspetti del carattere. E’ un viaggio sia per noi psicoterapeuti che per i pazienti in cui impieghiamo come risorsa anche i vissuti emotivi, un percorso che richiede a noi terapeuti in particolare la massima dedizione ed il massimo amore verso il prossimo. Come dice Gianmarco Manfrida: “La psicoterapia è l’ultima attività magica che alcuni di noi praticano usando se stessi e la parola per cambiare la realtà”, ma la magia non è improvvisazione, non sforna miracoli, richiede impegno e dedizione, impegna testa e cuore, non è mai scontata nè garantita, ma una quotidiana conquista che ci rende più umani.




venerdì 22 settembre 2017

Riflessioni sul contributo Sistemico


Di Francesca Bravi, psicologa psicoterapeuta.


Dal continuo confronto con colleghi di indirizzo diverso mi sono convinta che lo sviluppo della nostra disciplina avvenga su piani diversi secondo necessità opposte: sul piano epistemologico è e resta indispensabile la diversificazione in approcci e modelli teorici differenti, mentre sul piano pratico si impone la necessità di integrare, fondere e mescolare in un'unica amalgama tecniche e conoscenze sviluppate in seno alle varie correnti, al fine di esercitare nei nostri studi una psicoterapia sempre più matura, consapevole ed efficace.
Se condurre l’investigazione scientifica attraverso una pluralità di punti di vista permette un più fecondo sviluppo delle conoscenze, infatti, utilizzare queste ultime secondo un atteggiamento manicheo che veda ridotta la nostra capacità di intervento all’esercizio di una pura disciplina di partito, rappresenterebbe un grave impoverimento per la nostra pratica clinica.
Per superare lo scetticismo che ancora aleggia intorno alla psicoterapia siamo chiamati ad affinare con tutti i mezzi possibili le nostre modalità di intervento, in modo da garantire risultati efficaci per un numero sempre maggiore di persone in un tempo sempre più circoscritto, e per raggiungere questo traguardo è necessario lavorare con tutto l’eclettismo di cui siamo capaci.
Così, mentre il terapeuta sistemico si avvale di tecniche cognitivo-comportamentali, strategiche o psicopedagogiche, l'approccio Sistemico-Relazionale fornisce il proprio decisivo contributo allo sviluppo della prassi terapeutica attraverso l'approfondita conoscenza degli aspetti relazionali e l'abilità di lavorare con essi e su di essi.
Il Modello Sistemico, seguendo un approccio che “connette”, mantiene l'attenzione costantemente centrata sul contesto a tutti i livelli in cui esso si estrinseca. Gli aspetti di personalità vengono messi in relazione con gli aspetti disfunzionali del comportamento, il comportamento viene considerato alla luce della sua patogenesi relazionale (modello di attaccamento, infanzia…) e gli effetti delle esperienze passate vengono connessi alle dinamiche interpersonali che caratterizzano il presente, in una visione di insieme in cui “il complesso spiega il più semplice”.
E' sufficiente ribaltare quanto appena detto per rendersi conto che, se le relazioni esperite nel presente riecheggiano dinamiche responsabili dello sviluppo di tratti personologici, esse non sono solo il terreno su cui giocare gli interventi legati al superamento dei sintomi ma, cosa ancora più importante, costituiscono una diretta via di accesso alla personalità.
La “circolarità di azioni e retroazioni” che il paziente stabilisce con il proprio terapeuta, agendo su tutti i meccanismi patogenetici sia passati che presenti, diviene lo strumento principe attraverso il quale condurre il processo terapeutico. Il paziente diventa “co-autore” del percorso e per questo maggiormente consapevole, coinvolto e motivato.
La conoscenza di tecniche provenienti da indirizzi diversi permette di trattare i sintomi descritti in Asse I del DSM-V in modo sempre più rapido ed efficace con cambiamenti concreti, misurabili e distintamente riconoscibili.
Il lavoro sulla relazione, intervenendo sui tratti strutturali descritti in Asse II, agisce cambiamenti a livello profondo e fissa i risultati a lungo termine, facendoli diventare permanenti e generalizzati ai diversi contesti, in una dinamica che rende il paziente progressivamente più autonomo e indipendente.
L’integrazione di prassi diverse offre l’opportunità di agire una psicoterapia sempre più efficace, in tempi sempre più ragionevoli e con risultati stabili e definitivi. E non c'è niente di più bello che sentir dire dai nostri pazienti che il percorso con noi è stato il miglior investimento della loro vita!

BIBLIOGRAFIA
Bateson G.(1972), Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano.
Bateson G.(1979), Mente e Natura, Adelphi, Milano.

Linares J.L.( 2017), Terapia familiare ultramoderna. Pelli M. (a cura di) FrancoAngeli, Milano.

venerdì 1 settembre 2017

Comunicazione e sport. Principi relazionali al servizio della pratica sportiva

di Daniela Tortorelli, psicologa, psicoterapeuta, psicologa dello sport.


INTRODUZIONE1

La comunicazione è una conditio sine qua non dell’esistenza umana. Ogni individuo fin dalla nascita è coinvolto in una complessa rete di informazioni, che gradualmente impara a decodificare.
L’individuo adulto, anche se si esprime in maniera piuttosto chiara nel suo contesto, ha spesso una consapevolezza minima del potere della comunicazione e delle regole che la governano. In particolare, nello sport, la comunicazione è mezzo di insegnamento, di gestione relazionale, di correzione dell’errore e di incitamento.
Comunicare non è mettere qualcosa di passivo dentro un contenitore pronto ad accoglierlo. Etimologicamente il verbo sottende una messa in comune2, uno scambio di informazioni. È un dato universalmente riconosciuto che la comunicazione è innanzi tutto un processo di interazione, come bene hanno illustrato i principali ricercatori del Mental Research Institute di Palo Alto. Uno dei punti centrali insiti in una buona comunicazione implica, oltre la capacità di decodificare i messaggi altrui verbali e non, anche la capacità di osservare se stessi nel proprio modo di emettere i messaggi.
Riuscire a individuare le linee guida del processo comunicativo ed esserne più consapevoli permette di migliorare la qualità delle relazioni e, nella pratica sportiva, può influire nella qualità della performance. Sappiamo infatti che non c’è apprendimento senza comunicazione (Biccardi, De Simone, 1984) e che una buona prestazione è connessa a fattori relazionali, vale a dire al modo in cui l’atleta interagisce con ciò che lo circonda, cioè con il contesto fisico e relazionale in cui agisce.
L’incontro tra allenatore e atleta avviene attraverso il reciproco scambio di informazioni: la capacità di codificare in maniera corretta i messaggi che in maniera circolare vengono emessi e raccolti nell’interazione facilita e permette il processo di apprendimento e lo svolgimento della prestazione. Stessa cosa vale fra gli atleti di una stessa squadra e rispetto all’avversario.

CARATTERISTICHE DELLA COMUNICAZIONE APPLICATE ALLO SPORT

Strutturalmente il processo comunicativo è costituito da: un emittente che dà inizio all’interazione avvalendosi di un insieme di segni convenzionali che, una volta emessi e composti, devono essere compresi dal ricevente. L’emittente deve usare un canale efficace per trasmettere il proprio messaggio e un codice espressivo che congiuntamente gli consentano di trasmettere la propria idea. Per comunicare in maniera efficace con un ricevente specifico, l’emittente deve trovare il canale più adeguato. Se un allenatore deve dare indicazioni a un atleta che sta correndo in moto, è ragionevole pensare che il canale verbale non sia utile, mentre potrebbe essere più efficace e immediato un segno non verbale. Naturalmente il codice utilizzato deve essere ben condiviso fra atleta e allenatore.
Esistono un’infinità di codici: se l’emittente parla una lingua sconosciuta al ricevente, il messaggio non viene codificato e quindi rischia di non essere ben compreso. Nello sport i codici relativi alla disciplina praticata sono innumerevoli, settoriali, specifici e soggettivi. Ricordo il grande maestro di scherma Antonio Di Ciolo, quando diceva al suo atleta: “ora basta ballare il walzer, serve la rumba!”, intendendo con tale metafora che l’atleta avrebbe dovuto aumentare il ritmo dei movimenti di gambe in pedana, mettendo sotto pressione l’avversario e possibilmente cambiando la distanza dall’avversario. Il codice era chiaramente condiviso fra allievo e maestro perché il primo cambiava modo di tirare.
Il feed-back che il ricevente emette fornisce la risposta di ritorno che indica se il messaggio è stato accettato, distorto o rifiutato, secondo un processo circolare. Nel momento, infatti, in cui un ricevente emette il suo feed-back diventa a sua volta emittente. Solo in presenza di un messaggio di ritorno colui che ha strutturato ed emesso il messaggio può controllare se e come è stato recepito e rispondere a sua volta, diventando simultaneamente ricevente ed emittente.
Tutti questi elementi fanno sì che avvenga lo scambio comunicativo. Tuttavia, dal momento che la comunicazione è comportamento e veicolo della relazione, per comprendere ancora meglio questo processo occorre conoscere il contesto in cui avviene e il tipo di relazione esistente fra gli interlocutori. Molti psicologi affermano che lo scopo della comunicazione è molteplice: si comunica per insegnare, decidere, informare, indirizzare, condividere, ecc. In realtà tutti questi scopi ne racchiudono uno principale: performare la relazione. Per approfondire questo concetto occorre distinguere tre dimensioni di analisi della comunicazione umana: la sintassi, la semantica e la pragmatica.
La sintassi studia i processi di codifica, i canali, la capacità, il rumore e altre proprietà statistiche del linguaggio. Si occupa della trasmissione delle informazioni, degli aspetti tecnici e quantificabili della comunicazione.
La semantica studia il significato. Si possono trasmettere contenuti sintatticamente perfetti, ma se i due interlocutori di una comunicazione non si sono accordati sul loro significato, non si comprenderanno. La semantica riguarda l’aspetto simbolico che emittente e ricevente percepiscono in una comunicazione: concerne l’attribuzione di senso e di significato del messaggio in base a valori condivisi. Il senso di una parola o di una frase va contestualizzato nell’ambito del discorso e delle conoscenze condivise, include quindi il contesto in cui si esplica il processo comunicativo, cioè l’interazione fra due o più interlocutori.
La pragmatica studia come ogni comunicazione influenza il comportamento, che diventa a sua volta comunicazione. È la dimensione riferita all’influenza che la comunicazione ha sul comportamento, quindi all’aspetto performativo. Studia l’efficacia della comunicazione e la modalità in cui la reazione del ricevente influisce a sua volta sull’emittente. A livello pratico, lo studio della pragmatica comprende anche quello della sintassi e della semantica; è evidente che i tre settori sono interdipendenti, l’uno influenza l’altro in maniera reciproca. Nello sport, conoscere elementi di pragmatica della comunicazione è fondamentale, per l’utilità pratica che ne deriva, in quanto permette di migliorare la qualità della relazione, quindi la soddisfazione sportiva e, talvolta, la performance. I dati della pragmatica sono le parole, le loro configurazioni, i loro significati, ma anche fatti non verbali concomitanti, i segni di contesto, il linguaggio del corpo e le mappe interne di ogni individuo coinvolto nella relazione. In questa prospettiva, tutto il comportamento (non solo il discorso) è comunicazione e tutta la comunicazione influenza il comportamento. Se ne deduce che, nei casi estremi, un sintomo o un malessere di un atleta, in quanto comportamento, può essere considerato una comunicazione all’interno del contesto in cui si manifesta, che influenza profondamente l’ambiente. Secondo il principale modello teorico che studia la pragmatica della comunicazione (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1971) esistono 5 principi esplicativi delle interazioni umane, definiti assiomi della comunicazione.

GLI ASSIOMI DELLA COMUNICAZIONE

Gli assiomi della comunicazione sono alcune proprietà semplici che chiariscono specifiche dinamiche interpersonali. Di seguito saranno riportati i vari assiomi e spiegati in riferimento all’attività sportiva:

Primo assioma: in una relazione è impossibile non comunicare.

Non esiste un “non comportamento”, qualsiasi cosa facciamo o non facciamo rimane un comportamento, all’interno della relazione. L’attività, l’inattività, le parole, il silenzio hanno tutte valore di linguaggio: ogni comportamento influenza gli altri che a loro volta non possono non rispondere. Se in una relazione l’allenatore cerca di parlare a un suo atleta che tace e non risponde (anche se sollecitato), quest’ultimo sta comunque comunicando qualcosa (che non ha capito, che è arrabbiato, che non vuol parlare, ecc.). L’allenatore reagirà a sua volta in base all’interpretazione del silenzio dell’atleta (insistendo, cambiando atteggiamento, lasciando perdere, ecc.). L’interpretazione di questo comportamento/comunicazione dipenderà da vari fattori: il tipo di relazione che intercorre tra i due, i segni non verbali, gli scambi comunicativi precedenti, la modalità con cui l’allenatore si è rivolto all’atleta. Osservare i processi di feed-back diventa fondamentale.
Quando A (emittente) vuol comunicare qualcosa a B (ricevente), B ha tre possibilità:
a. accettare la comunicazione: a livello di relazione determina una conferma della relazione. Il senso del feed-back è “hai ragione”. Nello sport, ne è un esempio l’atleta che immediatamente esegue quanto suggerito dall’allenatore (“Ok, mister!”).
b. rifiutare la comunicazione: a livello di relazione il feed-back comporta un diniego: B fa capire ad A che non è d’accordo su quanto asserisce quest’ultimo o sulle sue intenzioni. Il rifiuto, a livello relazionale, può essere doloroso, ma implica un riconoscimento dell’interlocutore, seppur limitato. Non nega la realtà del giudizio di A su di sé, indica che B ha un altro giudizio. Se A è disposto ad accettare questa comunicazione, il rifiuto può essere costruttivo. Il senso generale del feed-back è “hai torto”. Nello sport accade quando un allenatore dà dei suggerimenti e l’atleta, dopo aver segnalato di aver capito, non esegue quanto richiesto e fa deliberatamente di testa sua.
c. squalificare la comunicazione: a livello di relazione comporta una disconferma. Quando una persona è messa alle strette in una comunicazione, ma vuole evitare l’impegno di definirsi, può rispondere invalidando le proprie comunicazioni o quelle altrui, per esempio contraddicendosi, cambiando discorso, formulando frasi incoerenti, reagendo in maniera anomala rispetto alla richiesta dell’emittente. In questo caso, il ricevente non si occupa più della verità o meno della definizione che A ha dato di sé, ma nega la realtà di A come emittente di tale definizione. In generale, è come se ribattesse: “tu non esisti, non considero il tuo messaggio”. In questo caso, tra allenatore e atleta, si struttura una comunicazione assurda in cui non si arriva a nulla di definito; ciò che non funziona è la relazione.

Secondo assioma: ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione in modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione.

In ogni comunicazione esistono due livelli: quello di contenuto, cioè la mera informazione trasmessa e quello della relazione, attraverso il quale si comunica la percezione che si ha di sé e dell’altro in quella interazione. Non comunichiamo solo qualcosa, ma anche su qualcosa. Il messaggio di relazione nasce dalle proprie fantasie e aspettative e dice: “ecco come mi vedo rispetto a te in questo momento”. Più importante di quello che uno dice è come lo dice e come viene recepito. È raro che le relazioni siano definite liberamente o con la piena consapevolezza: quanto più una relazione è spontanea e sana, tanto più l’aspetto relazionale della comunicazione recede sullo sfondo. Viceversa, le relazioni disfunzionali sono caratterizzate da una costante lotta per definire la relazione, mentre l’aspetto di contenuto della comunicazione diventa sempre meno importante. La definizione della relazione è strettamente dipendente dal tempo e dal luogo in cui avviene. Solitamente il contesto è condiviso, ma può accadere che sia percepito diversamente a seconda delle persone. La percezione soggettiva del contesto viene definita metacontesto. Ad esempio, se un atleta si presenta agli allenamenti vestito in maniera elegante, significa che percepisce quel contesto come formale e questo comunica qualcosa ai colleghi presenti.
Ormai diversi anni fa, durante i ritiri con la nazionale giovanile di scherma, alcune atlete veterane, cioè le azzurrine convocate per il terzo anno consecutivo, erano solite presentarsi agli allenamenti di preparazione atletica con dei boxer maschili. Non che fossero confuse sulla propria identità, ma attraverso quell’abbigliamento comunicavano alle matricole, alle neoarrivate, che loro erano così sicure di sé da potersi vestire in qualsiasi modo e allo stesso tempo rimarcavano a delle potenziali avversarie una differenza di età e di esperienza (quindi di potere), che nell’adolescenza e negli sport di combattimento è assolutamente rilevante. Il comportamento “estetico”, vale a dire la conformazione fisica, l’abbigliamento, lo stato della pelle, il trucco, la presenza o meno di tatuaggi, ecc., appartiene alla comunicazione non verbale: in particolare, questi elementi sono sovente usati per generare stati di inferiorità e sudditanza psicologica negli avversari (Tamorri, Agosti, 1984). Basti pensare ai colori delle maglie nelle squadre di calcio esibiti e rimarcati da giocatori e tifosi; oltre a sottolineare l’appartenenza, costituisco spesso elementi di provocazione e “sfida”.
Tali elementi contribuiscono a definire la relazione.
Il contesto serve a chiarire ulteriormente la natura della relazione (come deve essere assunto il messaggio). L’aspetto di relazione sta in una posizione meta rispetto a quello di contenuto, in quanto fornisce informazioni su come quest’ultimo debba essere recepito.
Per questo molti genitori di atleti dovrebbero riflettere sul fatto di dare consigli tecnici ai figli perché, nonostante la presunta validità di quest’ultimi, è proprio il fatto che a passarli sia un padre/madre e non l’allenatore che spesso non li fa recepire al figlio. La relazione dà valore al contenuto del messaggio e in questo senso è metacomunicazione, cioè comunica sulla comunicazione.

Terzo assioma: la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura della sequenza di comunicazione tra i due comunicanti.

Gli esseri umani sono predisposti a spiegare gli eventi secondo un rapporto di causa ed effetto di tipo lineare (“io mi comporto così perché tu fai questo”) perché hanno bisogno di ordine. Questo vale anche per le relazioni interpersonali: tipicamente, ognuno tende a riferire sul comportamento dell’altro. Un pensiero rigido, di attribuzione causale rigida, se diventa ripetitivo non consente di trovare accordi, né vie di uscita e spinge ad emettere un giudizio.
Un esempio, l’allenatore afferma: “io alzo la voce perché tu non mi ascolti.”
Mentre l’atleta risponde: “io non ti ascolto perché tu urli sempre.”
Sarebbe estremamente utile che l’allenatore, in questo caso, si soffermasse a pensare, in un’ottica circolare, “cosa sto facendo io, che fa sì che il mio atleta non mi ascolti?”. Mentre l’atleta potrebbe costruttivamente ragionare sul principio inverso. “cosa del mio comportamento suscita le urla del mio allenatore?”.
Il pensiero lineare di causa-effetto avviene quando le persone che interagiscono cercano la causa del proprio comportamento in quello altrui, senza valutare la propria responsabilità nel suscitare una certa risposta/comportamento. In queste situazioni possono nascere conflitti estremamente aspri, perché questa rigidità impedisce ai membri della relazione di modificare la propria modalità comunicativa, poiché considerata conseguenza del comportamento dell’altro. Il pensiero lineare è sterile, determina una punteggiatura rigida che non offre alternative: lo psicologo dello sport deve essere attento a individuare il punto di vista di ogni partecipante alla relazione e a non assumerne uno fisso.
Quindi, come regola generale, possiamo estrapolare che in un conflitto sterile e reiterato sarebbe molto più utile chiedersi cosa faccio io che determina quel comportamento nel mio compagno? Invece che andare avanti all’infinito a sottolineare le mancanze dell’altro. Tale riflessione sulla propria modalità di comunicare permette di compiere un salto logico e trovare soluzioni alternative alla diatriba.

Quarto assioma: gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi logica assai complessa e di estrema efficacia, ma manca di una semantica adeguata nel settore della relazione; mentre il linguaggio analogico ha la semantica, ma non ha nessuna sintassi adeguata per definire in un modo che non sia ambiguo la natura delle relazioni.

La comunicazione avviene attraverso il canale verbale (scritto e orale) e attraverso il canale non verbale (gesti, movimenti, parole metaforiche, prossemica, postura, contatto oculare, abbigliamento, ecc.). Nella comunicazione questi due livelli si mescolano e si arricchiscono a vicenda, ma è tutta la comunicazione analogica (non verbale) a metacomunicare sul linguaggio numerico (verbale).
Il linguaggio numerico è identificabile frequentemente con il messaggio di contenuto: è connotato dalle parole e prevede una convenzione semantica.
Nello sport esiste un linguaggio specifico della disciplina che tutti i giocatori dovrebbero conoscere e condividere.
Se non c’è convenzione semantica, il messaggio può non essere capito: questo è molto importante per i giocatori stranieri. Come se la cavano allora quest’ultimi appena arrivati, quando non conoscono ancora la lingua? Oltre a un traduttore, è fondamentale il piano analogico che permette loro di intuire il contenuto, anche se non sempre chiaramente.
Il linguaggio analogico non ha la negazione, né permette una scansione temporale. Definisce molte cose sulla relazione, ma è ambiguo. Comprende il linguaggio non verbale, il piano emotivo, metaforico, relazionale e i segni di marca contesto. In una comunicazione efficace occorre dare una numerizzazione corretta al messaggio analogico. Ricerche (Visconti, 1999; Benzi, De Marco e Moiso, 1999) dimostrano che i canali non verbali sono predominanti e fondamentali per trasmettere informazioni che sono ricordate a medio e lungo periodo. La valenza del messaggio è affidata in percentuale a: 7% alle parole (canale verbale); 38% alla modalità vocale, cioè tono, volume, pause, ritmo e accenti melodici (canale non verbale); 55% ai segnali del corpo, cioè mimica, gestualità e postura (canale non verbale). Nel complesso, quindi, il 93% della comprensione di una comunicazione è affidato a un messaggio condizionato dalla comunicazione analogica.

Quinto assioma: tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza.

Nelle relazioni simmetriche il comportamento del partner rispecchia quello dell’altro. Gli interlocutori assumono la stessa posizione all’interno della relazione: superiore (one-up) e superiore oppure inferiore (one-down) e inferiore. Le differenze sono ridotte ai minimi termini; nelle interazioni simmetriche ciascun soggetto si mantiene sullo stesso livello dell’altro.
Nelle relazioni complementari, invece, il comportamento di uno completa quello dell’altro. Si costruiscono due posizioni complementari, appunto: one-up e one-down oppure one-down e one-up.
Una relazione fondata principalmente sulla simmetria è portata a strutturare grandi conflitti (escalation simmetrica), che possono portare alla rottura della relazione. A livello di relazione, si fonda sul rifiuto cronico reciproco.
Una relazione esclusivamente fondata prevalentemente o, peggio, esclusivamente, sulla complementarità fa sì che non ci sia crescita ed evoluzione (complementarietà rigida) degli interlocutori.
Alcune relazioni sono naturalmente prevalentemente complementari, come quella genitore-figlio o allenatore-atleta, ma se rimangono tali nel tempo impediscono la crescita e l’evoluzione di chi sta in posizione one-down e del sistema stesso, creando un grave disagio e strutturando comunicazioni basate sulla disconferma dell’altro.
Il leader di una squadra dovrebbe avere una posizione one-up rispetto agli altri, ma se tale ruolo è conferito in maniera informale, non è detto che tutti lo accettino e che tale posizione debba essere rigida e assoluta.
Se nello sport c’è complementarietà rigida si possono strutturare: caduta dei livelli di attenzione, interesse per aspetti marginali dell’informazione e disattenzione per quelli centrali, rapida saturazione del livello di apprendimento e vissuti di rabbia, paura, noia.
In generale, una relazione è patologica quando una o l’altra modalità (complementarietà o simmetria) sono pressoché costanti. Complementarietà e simmetria dovrebbero appartenere a tutti i rapporti a seconda delle circostanze. Una relazione è sana quando è flessibile, in base alle circostanze. Una madre con un figlio avrà una relazione prevalentemente complementare quando quest’ultimo è piccolo, ma tanto più crescerà, tanto più dovrà lasciare spazio affinché il figlio si ponga alla pari o addirittura in posizione one-up. Un allenatore deve avere una posizione one-up con i suoi atleti, ma deve anche lasciare loro lo spazio per esprimersi e crescere. Durante una gara, invece, i ruoli devono essere definiti in modo tale che sia chiaro chi guida e chi esegue.
Moltissimi conflitti sterili e ripetuti derivano da problematiche di ruolo all’interno della relazione, non tanto dal contenuto.
Si ha una relazione metacomplementare (Watzlawick, Beavin e Jackson, 1971) quando A consente a B di assumere la direzione del proprio comportamento (di A) o lo costringe a farlo come se dicesse: “accetto le tue decisioni, ma con riserva”. Un esempio tipico si ha quando un allenatore accetta che sia il suo atleta a stabilire una strategia di gara, pur non essendo d’accordo, criticando poi alla fine quanto è stato proposto o semplicemente spiegando alla fine perché quanto proposto non ha funzionato. Tuttavia, se alla fine la strategia scelta dall’atleta ha avuto successo, l’allenatore potrebbe anche riconoscere il merito della scelta effettuata dall’atleta, riconoscendogli la capacità di stare in posizione one-up, estremamente utile alla crescita emotiva in termini di autoefficacia percepita e fiducia dell’atleta stesso.
Comunemente, si parla di Comunicazione ad una via o a senso unico quando il ricevente non fa domande o commenti e Comunicazione a due sensi o a due vie quando il ricevente invia chiari messaggi di ritorno (Benzi, De Marco e Moiso, 1999). In realtà, tale considerazione è concettualmente errata, perché anche la prima forma di comunicazione riceve dei feed-back, perlomeno a livello di comportamento analogico. Per esempio, se l’allenatore “ordina” un comportamento, l’atleta in campo non discute (perlomeno non sempre), ma esegue o meno l’ordine. L’atleta invia un segnale non verbale attraverso il suo comportamento/atteggiamento che darà indicazioni rispetto alla comunicazione e alla relazione (per esempio, potrà eseguire l’azione prescritta oppure potrà eseguirla con in faccia dipinto il disappunto oppure potrà assumere un atteggiamento di aperto rifiuto che lo porterà a non eseguire l’azione o a eseguirla in maniera ostentatamente fallimentare). L’allenatore a sua volta risponderà in maniera circolare al feed-back ricevuto.
La comunicazione comunemente detta “a una via” è utile quando il ricevente non è nelle condizioni di intervenire chiaramente nella comunicazione attraverso messaggi di contenuto, come in una gara. Solitamente questo tipo di comunicazione è più efficace e pratica, ma affinché vada a segno occorre che i ruoli dei partecipanti all’interazione siano ben definiti (relazione complementare) e accettati da entrambi, che ci sia chiarezza di contenuto e coerenza fra i canali verbali e non verbali (numerico-analogico).
La comunicazione a due vie è considerata più lunga e precisa: emittente e ricevente sono coinvolti e ragionevolmente disponibili al confronto e si passano feed-back reciproci. Se non ci sono problemi rispetto alla definizione della relazione, questo tipo di comunicazione è quella che permette di giungere a conclusioni più dettagliate e chiare. In caso contrario può trasformarsi in un estenuante conflitto (escalation simmetrica) o se non è possibile per uno dei partecipanti assumere una posizione di confronto alla pari (relazione prevalentemente complementare), possono emergere gravi messaggi di disconferma.
La scelta del tipo di comunicazione, a una o due vie, va ponderata in base alle necessità e agli obiettivi dell’emittente.

CONCLUSIONI

Il presente lavoro nasce da una rielaborazione teorica e pratica dei principi della comunicazione a partire dalla Pragmatica della comunicazione (1971) e delle principali ipotesi concettuali e studi del settore (Nascimbene, 2011), unitamente all’esperienza sul campo di chi scrive, sia come docente, che come psicologa dello sport (Tortorelli, 2005, 2008, 2016).
Capita spesso, in contesti non patologici, ma sani quali quelli attinenti allo sport che un lavoro sulle dinamiche comunicative esistenti fra i vari atleti (compagni di squadra) e fra atleti e allenatori chiarisca numerose situazioni di crisi e stimoli un modo di entrare in rapporto più costruttivo e funzionale al benessere di chi sta in campo e all’ottimizzazione della performance. Talvolta questo tipo di lavoro risulta utile anche alle relazioni allargate dell’atleta, cioè fra quest’ultimo e la famiglia d’origine e fra quest’ultimo e la società sportiva.
Naturalmente, lo studio della comunicazione e l’intervento su e attraverso essa sono estremamente utili anche nei casi di rilevanza clinica, sia in ambito sportivo che psichiatrico.
Allo stesso tempo, è importante per lo psicologo dello sport avere dimestichezza e familiarità con i principali concetti relativi alla comunicazione in quanto la maggior parte del suo lavoro coinvolge tale aspetto; attraverso la comunicazione egli costruisce ipotesi e mette a punto, trasmettendole, procedure di intervento utili ad aiutare gli atleti, gli allenatori e, in certi casi, anche la dirigenza sportiva.

BIBLIOGRAFIA

Benzi M., De Marco P. & Moiso C. (1999). La comunicazione nello sport: il singolo, la squadra, l’ambiente. In Tamorri S., a cura di, Neuroscienze e sport. Torino, UTET, pp. 219-238.
Biccardi T., De Simone M. (1984), eds., Relazione e comunicazione nello sport. Atti delle VI giornate di Psicologia dello Sport, Roma.
Nascimbene F., a cura di (2011). Guida alla Psicologia dello Sport. 2011- Verso un approccio relazionale-ipertestuale. Recco (GE): Libreria dello sport.
Tamorri S, Agosti E. (1984). Il rapporto con l’abbigliamento e gli attrezzi. In Biccardi T, De Simone M. Relazione e comunicazione nello sport. Centro Studi Sangemini, 1984.
Tamorri S. (1999), a cura di, Neuroscienze e sport. Torino: UTET.
Tortorelli D. (2005). Atleti, allenatori e squadre. La psicologia dello sport in una prospettiva relazionale. Ecologia della Mente, 1: 61-82.
Tortorelli D. (2008). Nuevos contextos: la intervencìon relational en el deporte. Redes, Septembre: 25-46.
Tortorelli D. (2016), Prepararsi al via. Psicologia dello sport sistemico-relazionale. Milano: Franco Angeli (in uscita).
Visconti G. (1999). Comunicare bene. Una chiave per il successo. Milano: Franco Angeli.
Watzlawick P., Beavin J. H. & Jackson D. D. (1971). Trad. it.: Pragmatica della comunicazione umana. Roma: Astrolabio.


1 Il presente lavoro è tratto dal libro, Tortorelli D. (2016), Prepararsi al via. Psicologia dello sport sistemico-relazionale. Milano: Franco Angeli e dall’articolo Tortorelli D., Comunicazione e sport. Principi relazionali al servizio della pratica sportiva. Giornale Italiano di Psicologia dello Sport, numero 24. Sett.-dic- 2015, 37-43.

2 Comunicare deriva dal greco koinè che significa partecipo e dal latino communico che significa metto in comune, condivido.