martedì 31 gennaio 2017

Chi beve solo acqua ha un segreto da nascondere

di Ada Moscarella - Psicologa, Psicoterapeuta


La rassicurante ottica lineare. Poche cose sono rassicuranti come uno sguardo lineare: da A discende B. 
Se rimuovo la causa, eliminerò anche gli effetti.
Quando ci si trova di fronte una persona alcolista, la tentazione è davvero allettante. Lanciarsi alla scoperta delle tragiche cause del bere e dalla catarsi, finalmente, la sobrietà. 
E sembrerà proprio la strategia vincente, il paziente sarà il più collaborativo di tutti, non vedrà proprio l'ora di lanciarsi nel racconto di tutti i disastri che hanno lastricato la via verso le gioie della bottiglia.

Un alcolista inviterà a nozze un terapeuta alla ricerca della “causa”. 
Ma è solo un trucco: lanciarsi nel doloroso passato darà solo l’illusione di un lavoro nel profondo. Quello a cui stiamo collaborando, in realtà, è il grandioso progetto di continuare a bere, e pure sentendosi giustificatissimi a farlo

La posizione del terapeuta. E' molto delicata la posizione del terapeuta in questi primi momenti della terapia: dovrà trovare la giusta miscela di accoglienza e fermezza, quella che serve per riportare la persona dipendente nell’immediatezza della sua sofferenza e della sua condizione e della relazione che accade nel qui ed ora.

La relazione. Più dei fatti, in questi casi a contare è la relazione.
Alla base dell’alcolismo sussiste un profondo conflitto tra il bisogno di dipendenza, e annesso senso di inadeguatezza, cui si accompagna un costante bisogno di controllo, che si esprime attraverso sentimenti di grandiosità. (Aurilio, 1989, 2005; Campanelli, 1993;  Cancrini, 2003, 2006; Hendin et al., 1981-82; Labouvie, 1986; Mucelli, Masci, 1996; Newcomb, Bentler, 1986; Ravenna, Nicoli, 1991). 
In questo quadro, l’alcol è come un calmante, che ha lo scopo di placare l’ansia da dipendenza insoddisfatta e che permette l’instaurarsi di un’immagine artificiosa di un sé grandioso. 
Quando poi l’effetto svanisce, riemerge prepotentemente il senso di inadeguatezza, che deve essere di nuovo zittito con una sbronza: si stabilisce così un granitico circolo vizioso (Aurilio, Botticelli et al., 1981; Kessel, Walton, 1978; Zimberg 1985).

Il desiderio. L’alcolismo è la manifestazione estrema del tentativo di realizzare il più antico desiderio relazionale: il controllo sull’oggetto (Aurilio, 2005). Una relazione autentica, però,  presuppone, tra le tante cose, anche la necessità di differire la soddisfazione del desiderio.
Per costruire un legame con gli esseri umani è indispensabile poter sviluppare la capacità di tollerare il tempo di latenza che intercorre tra il bisogno e suo soddisfacimento. 
E' l’accettazione di questa realtà ad aprire all'autenticità con l'altro; ma richiede un impegno profondo e una rinuncia dolorosa: la resa all’impotenza.

La sfida. Un alcolista è un individuo che non si è arreso a questa realtà, ed invece di rinunciare all’onnipotenza, la sfida, e preferisce, infine, rinunciare alle persone pur di non perdere la sua partita.
Il dramma è che nei primi mesi dell’assunzione della sostanza, prima che si innesti un quadro di intossicazione franca, essa realizza appieno questa illusione. Il potere e il controllo sull’oggetto inanimato è assoluto, come assoluta è la soddisfazione del desiderio. 
Nella relazione con l’oggetto inanimato sono assenti tutte le caratteristiche di instabilità e incertezza, proprie delle relazioni umane. La bilancia del potere ci mette un po’ a capovolgersi, ma alla fine accade sempre. Lo scettro passa di mano, «l’oggetto d’amore diventa da divorato il divorante»  e la ricerca di una causa originaria che permette a questo maleficio di compiersi è assolutamente perdente: ogni alcolista ha la sua ottima ragione (Aurilio, 1989, 2005, 2008).

Kronos che divora i suoi figli. Quello che concretamente accade nella vita di chi sviluppa una dipendenza da sostanze è che essa col tempo fagocita tutto ciò che è altro. La sostanza diventa una tiranna ed al contempo l’unica, contorta e malevola, fonte di piacere.
Tutto è vissuto in funzione dell’alcol, che rende chimico e artificioso il mondo circostante, colpendo con più ferocia il mondo relazionale dell’alcolista, che respingerà ogni occasione di autentico confronto e condivisione. Il mondo allora si popolerà di compagni di bevute, di persone disposte ad aderire completamente al suo punto di vista o, all’estremo opposto si sceglierà un isolamento sociale pressoché assoluto. 
La sostanza catalizzerà su di sé gran parte dei discorsi che la persona intrattiene, delle sue emozioni e dei suoi comportamenti; gli altri, anche le figure fino a quel momento importanti, finiranno in qualche modo sullo sfondo, conteranno meno, rischieranno continuamente di diventare pedine di un gioco dove a essere protagonista è la sostanza (Aurilio, 1989; Cancrini, 2003). 
Il braccio di ferro. Il braccio di ferro tra la famiglia e il parente alcolista è la condizione più comune in cui può imbattersi il terapeuta, il quale, se non si lascerà ubriacare dai contendenti, potrà notare che i nodi del contendere sono la sfida, il controllo, la sconfitta.
La sfida dell'alcolista. L’alcolista, man mano che la dipendenza si insinua, sfida e perde la sua battaglia per dimostrare che ha il controllo sulla bottiglia. 

La sfida della famiglia. La famiglia, sempre più allarmata dalle condizioni del congiunto, ingaggia, senza rendersene conto,  una guerra del tutto uguale a quella dell'alcolista: la battaglia del controllo sul parente, nel tentativo di non farlo bere. 
A vincere è la dipendenza. La condizione di alcolista trova alimento nel controllo sempre più capillare effettuato dai familiari. La modalità relazionale sarà tutta improntata all’innalzamento esponenziale di un’escalation simmetrica: tanto più sarà stretta la sorveglianza dei familiari, tanto più l’alcolista vorrà dimostrare che si sbagliano e vorrà sfidare l’alcol per dimostrare a tutti che è un “bevitore normale” (Andreoli, 1986, Aurilio, 1989, 2000; Aurilio, Moccia, 1989; Bateson, 1972; Chianura, Petrozzi, 2005; De Vanna 1974).
La speranza. Indagare il perché si inizi a bere ci porta in luoghi di sofferenza quasi attesi, ma lontani nel tempo e nello spazio. 

La speranza di un cambiamento, invece, può vivere solo in un tempo che è vicinissimo, non è nel passato, dove può facilmente farsi rimpianto e recriminazione da parte del paziente e/o dei suoi familiari, non è nemmeno nel futuro, dove può essere solo illusione. La speranza vive nel presente ed è in questo tempo che il  terapeuta sistemico deve stare insieme al suo paziente.
Le domande allora sono «Perché ora? Perché qui?» e la risposta non dovrà essere colta nei suoi contenuti, ma nei suoi risvolti relazionali (Aurilio 2005). 
Saranno questi, infatti, a dirci quale è il materiale con cui il paziente intende costruire il ponte relazionale con il terapeuta.
Questi pazienti arrivano spesso con qualche giorno, settimana, magari mese di sobrietà da portare in dote: come prevenire, allora, la ricaduta?

La disintossicazione. La fase che segue la disintossicazione fisica è estremamente delicata. Ciò che tiene tutto in bilico sul filo del rasoio è che l’alcol è stato sì tolto dall’organismo, ma permane come elemento intorno al quale è organizzata la vita dell’alcolista, che si ritrova spesso a dover fronteggiare le conseguenze di problemi finanziari e lavorativi derivati dall’alcolismo, senza dimenticare il persistere di tutte le tensioni familiari.

Conoscere per prevenire. La conoscenza delle situazioni e delle condizioni che comportano un rischio di ricaduta costituisce un prezioso elemento preventivo. Sarà indispensabile conoscere, per evitare, determinati stimoli ambientali associati all’alcol, come il ritorno negli ambienti dell’alcolizzazione. Bisognerà poi approntare un sistema di coping che permetta di fronteggiare le situazioni di rischio.
Questo deve prevedere un intervento diretto all’individuo e al suo sistema di appartenenza, per modificarne le regole, ma deve prevedere anche interventi diretti alla ristrutturazione delle abitudini di vita dell’alcolista. Interventi che dovranno essere diretti alla ricostruzione di una vita sociale e all’acquisizione di nuove abitudini. (Alisop, Saunders, Phillips, Carr, 1997; Cibin, 1993; Connors, Maisto, Donovan, 1996; Napolano, 1997).

Mosse controintuitive. L’accoglienza dell’alcol-dipendente è un processo delicato che può prendere le connotazioni di un rifiuto. In molti casi, infatti, può essere più efficace chiudere gli spiragli invece di cercare forzosamente di allargarli. Non bisogna dimenticare che il dipendente è abituato ad ottenere molte cose attraverso l’esibizione del suo bisogno d’aiuto e le sue promesse di cambiamento: accogliere le sue esigenze aprioristicamente significherebbe esclusivamente affogare nel suo sistema di regole, destinandosi a un fallimento quasi certo. Il terapeuta che si ostina in un’accoglienza “a tutti i costi”, lotta più per sé che per la relazione terapeutica, lotta per difendersi dal rischio di perdere il paziente e dalla possibilità di un proprio fallimento e non opera a favore di un cambiamento efficace (Aurilio, 2008; Cancrini, 1982, 2003; Erickson, 1982). Bisogna attrezzarsi per non farsi prendere dall’ansia da prestazione, per non farsi  annichilire dalle richieste disfunzionali del paziente e della sua famiglia, per non lasciarsi spaventare da una cura ad “andamento lento” (Aurilio, 2008; Pazzagli, Rossi, 1991; Racamier, 1980). 

Bisogna sfuggire alla fantasia si salvare il paziente (Whitaker, 1988).

Responsabilità per la cura.  Whitaker spiega che la battaglia per l'iniziativa «serve a far sì che [i membri della famiglia e il paziente] mantengano l’iniziativa nella propria vita e anche per assicurarmi che l’ansia con cui sono arrivati resti lì, che non si liberino dell’ansia per poi crollare, aspettandosi che io [il terapeuta] gestisca il loro mondo. […] non voglio alleviare la loro ansia, voglio che l’ansia diventi l’energia che fa muovere le cose. Poi agirò in modo che questa ansia diventi più produttiva» . 
Affannarci a spegnere il sintomo avrà come unico risultato di lasciarci al buio. Farsi carico completamente della responsabilità del cambiamento significa escludere se stessi e il paziente dalla possibilità di una sobrietà duratura.
«La mia posizione» scrive Whitaker «è quella di sforzarmi di essere disponibile verso la famiglia, senza essere responsabile per loro» . Per fare ciò è necessario condurre con fermezza un’altra battaglia: quella per la struttura, ossia per le condizioni minime necessarie a svolgere il lavoro.

Queste battaglie possono essere vincenti solo se il terapeuta è guidato dalla ferma convinzione che un cambiamento è sì possibile, ma esso non va imposto con la forza, perché, come sosteneva Whitaker: una relazione è utile solo quando questa permette la crescita di tutti gli individui coinvolti ((Whitaker, 1989; Whitaker, Bumberry, 1988).




BIBLIOGRAFIA
Alisop S., Saunders B., Phillips M., Carr A. (1997), «A trial of relapse prevention with several dependent male problem drinkers», in Addiction, 92, 61-73.
Andreoli V., Basile A. (1986) «Alcol e famiglia», Franco Angeli Editore, Milano.
Aurilio R. (1989), «Aspetti psicologici dell’alcolismo», in Spazio Medico, Settembre 1989
Aurilio R. (2000), «Le dinamiche familiari disfunzionali nell’alcolismo femminile», Ed. G. De Nicola, Napoli.
Aurilio R. (2005), «Aspetti psicologici e psicoterapeutici dell’alcolismo», in Atti del Convegno “Alcolismo: aspetti sanitari e socio-educativi”, Napoli, 2005.
Aurilio R. (2008), «Dipendenze patologiche: curatori e curati, questione di…», in Chianura P., Schepisi I., Dellarosa A. C., Menafro M., Peruzzi P. (a cura di) «Le relazioni e la cura. Viaggio nel mondo della psicoterapia relazionale». Franco Angeli, Milano.
Aurilio R., Botticelli M., Giurazza R.D., Labello A., Paura A. (1981), «Alcolismo: considerazioni sulle componenti psico-sociali del fenomeno», in Panorama Sanitario, Fasc.VI, pp.1-12.
Aurilio R., Moccia G. (1989), «La struttura familiare del paziente alcolista», in Spazio Medico, Quaderni Monografici, Gennaio 1989.
Bateson G. (1972), «Steps to an Ecology of Mind». Chandler, S. Francisco. Tr. It. «Verso un’ecologia della mente». Adelphi, Milano.
Campanelli M. (1993), «Strutture di personalità dei tossicodipendenti», I Congresso Nazionale Comunità «La Fenice» su La Riabilitazione e il reinserimento sociale dei tossicodipendenti: esperienze e metodologie a confronto. Loseto (Bari), 5-7 Novembre.
Cancrini L. (1982), «Quei temerari sulle macchine volanti. Studio sulle psicoterapie dei tossicomani», Nuova Italia Scientifica.
Cancrini L. (2003), «Schiavo delle mie brame. Storie di dipendenza da droghe, gioco d’azzardo, ossessioni di potere». Frassinelli Editore.
Cancrini L. (2006), «L’oceano borderline – Racconti di viaggio», Raffaello Cortina Editore, Milano.
Chianura L., Petrozzi M. (2005), «Famiglia e tossicodipendenza», in Chianura P., Balzotti A., Chianura L., (a cura di), (2005), «Comorbilità psichiatrica ed abuso di sostanze», Franco Angeli, Milano.
Cibin M. (1993), «Craving: physiopathology and clinical aspects», in Alcologia, 5:257-60.
Connors G. J., Maisto S. A., Donovan D. M. (1996), «Conceptualizzation of relapse: a summary of psychological and psychobiological models», in Addiction, 91 (suppl.) 5-13.
De Vanna M. (1974), «La famiglia dell’alcolista», in Minerva Psichiatrica e Psicologica, n.15, pp.75-102.
Erickson H. M. (1982), «My voice will go with you. The teaching tales of Milton H. Erickson», a cura di Rosen S., M.D., Trad. it. «La mia voce ti accompagnerà. I racconti didattici di Milton H. Erickson», 1983, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma.
Hendin H., Pollinger A., Ulman R.B., Carr A.C. (1981-82) «The functions of mariujana abuse for adolescents», in America Journal of Drug and Alcohol abuse, VIII, 4, pp. 441-456.
Kessel N., Walton H. (1978), «L’alcolismo», Feltrinelli.
Labouvie E.W. (1986) «Alcohol and marijuana use in relation to adolescent stress», in The International Journal of the addiction, XX, 2, pp. 333-345.
Mucelli R., Masci G. (1996) «Tossicodipendenze: curare, guarire, assistere». Milano, Angeli.
Napolano F.C. (1997), «Fenomenologia della ricaduta», in AA.VV. Capitan Uncino, Edizioni ASL CE/1, Caserta.
Newcomb M.D., Bentler P.M. (1986), «Consequences of adolescent drug use», Beverly Hills, Calif. Sage, Newcomb, M.D. e Harlow L.L.
Pazzaglia A., Rossi R. (1991), «Schizofrenia: cronicità o bisogno inappagabile?», Il Pensiero Scientifico Editore, Roma.
Racamier P. C. (1980), «Les schizophrenès», Payout, Parigi, 1980. Trad. it. «Gli schizofrenici», Raffaello Cortina Editore, Milano, 1983.
Ravenna M., Nicoli M.A. (1991), «Iniziazione nell’uso delle droghe pesanti e leggere: analisi di sequenze discorsive» in Giornale Italiano di psicologia, XVIII, 3, pp. 473-489.
Whitaker C. (1989), «Midnight musing of a family therapist», Norton Company, New York. Trad. it. (a cura di M. O’ Ryan) «Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia», Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma, 1990.
Whitaker C. A., Bumberry W. M. (1988), «Dancing with the family – A simboli-experential approach», Brunner/Mazel, New York. Trad. it: «Danzando con la famiglia – Un approccio simbolico esperienziale», 1989, Astrolabio, Roma.
Zimberg S. (1985), «Principles of alcholism psychoterapy», in S. Zimberg, J. Wallace, S. Blume (a cura di) «Pratical approaches to alcholism psychotherapy» (seconda edizione), New York: Plenum Press, 1985, pp. 3-18.