venerdì 28 luglio 2017

Tempo di estate... e di riflessioni..

di Chiara Benini, psicologa e psicoterapeuta 


Le vacanze si avvicinano e con esse si rompe la ruotine, c'è molto più tempo libero, più relazioni familiari e amicali e più aspettative di stare bene. Ma anche più richieste di psicoterapia urgente e più sintomi nei pazienti in carico. Così, ecco una riflessione utile per chi questo tempo lo anela e lo teme.

Il tempo si ruba facilmente: appena un nuovo modo di viaggiare, lavorare o comunicare diventa più veloce, subito nuove esigenze apparentemente imprescindibili mangiano terreno alla possibilità di farne uso. Adulti e ragazzi sempre più giovani passano ogni momento libero impegnati sui social o in altra app dei telefonini che hanno preso il posto di libri ed enigmistiche nelle spiagge, sui treni, nelle sale d'aspetto, fino a riempire i tempi tra un piatto e l'altro al ristorante, nei break pubblicitari, fino ai momenti che, pur di lavoro, vedono calare l'interesse o l'attività. Ma la mancanza di vuoti nelle nostre giornata, l'ottimizzazione che annulla ogni tempo morto, non è priva di conseguenze.
Non si tratta solo di riduzione di altre attività più culturalmente impegnate, non ci rimettono solo Tolstoj o Bartezzaghi, ma la nostra mente e la nostra vita. Così come l'inverno permette alle piante di germogliare e il sonno ci è necessario per la veglia, anche la noia e il tempo ozioso e vuoto ci sono utili. E' in questi momenti che possiamo cogliere un'idea o una connessione per cui nel momento dell'azione manca il tempo, in questi silenzi possiamo ascoltarci, sentire noi stessi, riflettere e ricordare: attività che purtroppo sono sempre più spesso appannaggio esclusivo degli spazi terapeutici.

Purtroppo questa mentalità condiziona le logiche con cui cresciamo le nuove generazioni, con conseguenze ancor più gravi poichè si tratta di individui in formazione che crescono senza poter sviluppare le capacità che il vuoto stimola: capacità creative e autoriflessive, tolleranza alla frustrazione, metacognizione... La scorsa settimana una mamma mi chiedeva il bene placido per iscrivere la figlia ad un corso di inglese dopo che già trascorreva all'asilo tutta la giornata, fino alle 16.30. Vengono proposte sempre più spesso attività extracurricolari già dai 3 anni, come se la rincorsa ad accumulare stimoli e conoscenze fosse solo positiva, non considerando ciò che resta indietro. La possibilità di giocare giochi non prestabiliti, di annoiarsi e vagare con la mente, di ripercorrere e rielaborare la giornata e i suoi eventi. Imparare a gestire il vuoto, a scegliere come riempirlo, ad ascoltare ciò che ci fa stare bene e ciò che ci fa stare male: queste abilità apparentemente non sono niente, non si vantano in società e non si misurano con i voti eppure hanno un ruolo importante nella crescita di bambini e ragazzi, poichè come umani non siamo una sequenza di azioni ma esseri complessi in società complesse in cui sono fondamentali le capacità di pianificazione, gestione, riflessione e autocorrezione che, come ogni abilità, richiedono di essere stimolate ed esercitate.

Infine sempre più spesso la situazione scappa di mano e invade la relazione. Al ristorante non si parla ma si chatta, si è amici di parenti e figli su Facebook ma non si fa nulla insieme, esonerando se stessi e gli altri da conversazioni imbarazzanti e dalla fatica di mettersi nei panni altrui, con il risultato di monologhi spesso privi di relazione e di autenticità.
Non è un problema di mezzi, ma di uso. Così come molte altre cose nella vita, sostanze in primis, è il fuggirvi dentro nell'illusione che la più facile sia la via migliore, che risulta a lungo andare pericolosa. La nostra società ci ha allontanati da morte, malattia, povertà, handicap... e piano piano anche da noi stessi nascondendo (poichè non
è possibile eliminare) ciò che risulta meno piacevole.


Senza doverci guardare allo specchio stiamo meglio, siamo meno "modestamente infelici", meno consapevoli, ma anche meno attori della nostra vita, meno capaci di scegliere. La paura di confrontarci con il vuoto, il timore di non essere e non avere finisce per portare il vuoto in noi, nelle nostre amine e nelle nostre vite. Quindi, in vista della pausa estiva, a meno che non abbiate organizzato anche le ferie in ogni minuto, fatevi coraggio, e godetevi il vuoto!

giovedì 20 luglio 2017

Farmaci e psicoterapia... riflessioni dopo un recente corso di formazione

di Gianmarco Manfrida, psichiatra e psicoterapeuta


Per essere medico psichiatra e anche psicologo e psicoterapeuta ho dovuto fare una LUUUUNGA strada, piena di viaggi, esami, tesi da scrivere…ma non l’ho mai considerato un percorso inutile. 

Il buon medico non prescrive farmaci per la malattia ma per il paziente: tiene conto del suo organismo nel complesso, ma anche della sua situazione di vita per decidere che farmaci prescrivere. 
A un ottantenne depresso con problemi cardiologici prescrive alcuni serotoninergici piuttosto che altri, si informa se vive solo o coi familiari, li coinvolge per assicurarsi un controllo nei primi giorni di terapia in cui ancora gli effetti non sono stabili: se invece il paziente vive solo concorda visite più frequenti, si informa se ci sono parenti o altre persone coinvolgibili in un lavoro di assistenza.


Fa cioè attenzione al contesto, modula l’intervento sulle risorse e sulle fragilità del paziente, coinvolge altri nella terapia come uno psicoterapeuta relazionale. 
Purtroppo si è creata una spaccatura tra psicologi psicoterapeuti e medici psichiatri, dovuta a una deriva biologica della psichiatria negli anni tra il 1980 e il 2000, e a una sorta di posizione contestataria “alternativa” di molti psicologi rispetto alla figura del medico, vista come più autorevole. Oggi assistiamo ad aperture maggiori: da parte degli psichiatri viene riconosciuta efficacia alla psicoterapia, almeno per i modelli che maggiormente conoscono come quello cognitivo-comportamentale, certamente non l’unico efficace come viene proposto anche nei bugiardini dei farmaci. 
Dalla parte degli psicoterapeuti vi è la ricerca di medici che possano prescrivere farmaci ai pazienti agli inizi di una psicoterapia o in un momento in cui per tanti possibili motivi non basta la relazione e la cura con la parola a ridurre la sofferenza o ritrovare l’iniziativa. In realtà sia le parole che i farmaci si rivolgono allo stesso bersaglio, sono capaci di modificare, le prime in modo più selettivo e specifico, i secondi più grossolanamente, il pensiero e le emozioni delle persone
Se si pensa a una pera o a una mela, saranno diversi i neuroni coinvolti e le sinapsi collegate: con le parole posso far pensare all’una o all’altra, ma con un tempo di azione più lungo, con i farmaci posso solo far pensare di più o di meno ma in modo rapido ed economico. Posso sostenere l’umore depresso di un paziente anche solo con visite frequenti senza impiegare farmaci, ma se il farmaco lo farà in un mese consentendoci di lavorare su altri argomenti più alla svelta e con meno incontri, non converrà impiegare tutte e due le risorse? Il vero problema è saper impiegare non solo correttamente, ma bene sia le parole che i farmaci…ma questo è argomento per un altro post!