di Daniela Tortorelli, psicologa, psicoterapeuta, psicologa dello
sport.
INTRODUZIONE
La comunicazione è una conditio sine qua non dell’esistenza
umana. Ogni individuo fin dalla nascita è coinvolto in una complessa
rete di informazioni, che gradualmente impara a decodificare.
L’individuo adulto, anche se si esprime in maniera piuttosto chiara
nel suo contesto, ha spesso una consapevolezza minima del potere
della comunicazione e delle regole che la governano. In particolare,
nello sport, la comunicazione è mezzo di insegnamento, di gestione
relazionale, di correzione dell’errore e di incitamento.
Comunicare non è mettere qualcosa di passivo dentro un
contenitore pronto ad accoglierlo. Etimologicamente il verbo sottende
una messa in comune,
uno scambio di informazioni. È un dato universalmente riconosciuto
che la comunicazione è innanzi tutto un processo di interazione,
come bene hanno illustrato i principali ricercatori del Mental
Research Institute di Palo Alto. Uno dei punti centrali insiti in una
buona comunicazione implica, oltre la capacità di decodificare i
messaggi altrui verbali e non, anche la capacità di osservare se
stessi nel proprio modo di emettere i messaggi.
Riuscire a individuare le linee guida del processo comunicativo ed
esserne più consapevoli permette di migliorare la qualità delle
relazioni e, nella pratica sportiva, può influire nella qualità
della performance. Sappiamo infatti che non c’è apprendimento
senza comunicazione (Biccardi, De Simone, 1984) e che una buona
prestazione è connessa a fattori relazionali, vale a dire al modo in
cui l’atleta interagisce con ciò che lo circonda, cioè con il
contesto fisico e relazionale in cui agisce.
L’incontro tra allenatore e atleta avviene attraverso il reciproco
scambio di informazioni: la capacità di codificare in maniera
corretta i messaggi che in maniera circolare vengono emessi e
raccolti nell’interazione facilita e permette il processo di
apprendimento e lo svolgimento della prestazione. Stessa cosa vale
fra gli atleti di una stessa squadra e rispetto all’avversario.
CARATTERISTICHE DELLA COMUNICAZIONE APPLICATE ALLO SPORT
Strutturalmente il processo comunicativo è costituito da: un
emittente che dà inizio all’interazione avvalendosi di un
insieme di segni convenzionali che, una volta emessi e composti,
devono essere compresi dal ricevente. L’emittente deve usare
un canale efficace per trasmettere il proprio messaggio e un
codice espressivo che congiuntamente gli consentano di
trasmettere la propria idea. Per comunicare in maniera efficace con
un ricevente specifico, l’emittente deve trovare il canale più
adeguato. Se un allenatore deve dare indicazioni a un atleta che sta
correndo in moto, è ragionevole pensare che il canale verbale non
sia utile, mentre potrebbe essere più efficace e immediato un segno
non verbale. Naturalmente il codice utilizzato deve essere ben
condiviso fra atleta e allenatore.
Esistono un’infinità di codici: se l’emittente parla una lingua
sconosciuta al ricevente, il messaggio non viene codificato e quindi
rischia di non essere ben compreso. Nello sport i codici relativi
alla disciplina praticata sono innumerevoli, settoriali, specifici e
soggettivi. Ricordo il grande maestro di scherma Antonio Di Ciolo,
quando diceva al suo atleta: “ora basta ballare il walzer, serve la
rumba!”, intendendo con tale metafora che l’atleta avrebbe dovuto
aumentare il ritmo dei movimenti di gambe in pedana, mettendo
sotto pressione l’avversario e possibilmente cambiando la distanza
dall’avversario. Il codice era chiaramente condiviso fra allievo e
maestro perché il primo cambiava modo di tirare.
Il feed-back che il ricevente emette fornisce la risposta di ritorno
che indica se il messaggio è stato accettato, distorto o rifiutato,
secondo un processo circolare. Nel momento, infatti, in cui un
ricevente emette il suo feed-back diventa a sua volta emittente. Solo
in presenza di un messaggio di ritorno colui che ha strutturato ed
emesso il messaggio può controllare se e come è stato recepito e
rispondere a sua volta, diventando simultaneamente ricevente ed
emittente.
Tutti questi elementi fanno sì che avvenga lo scambio comunicativo.
Tuttavia, dal momento che la comunicazione è comportamento e veicolo
della relazione, per comprendere ancora meglio questo processo
occorre conoscere il contesto in cui avviene e il tipo di relazione
esistente fra gli interlocutori. Molti psicologi affermano che lo
scopo della comunicazione è molteplice: si comunica per insegnare,
decidere, informare, indirizzare, condividere, ecc. In realtà tutti
questi scopi ne racchiudono uno principale: performare la relazione.
Per approfondire questo concetto occorre distinguere tre dimensioni
di analisi della comunicazione umana: la sintassi, la semantica e la
pragmatica.
La sintassi studia i processi di codifica, i canali, la capacità, il
rumore e altre proprietà statistiche del linguaggio. Si occupa della
trasmissione delle informazioni, degli aspetti tecnici e
quantificabili della comunicazione.
La semantica studia il significato. Si possono trasmettere contenuti
sintatticamente perfetti, ma se i due interlocutori di una
comunicazione non si sono accordati sul loro significato, non si
comprenderanno. La semantica riguarda l’aspetto simbolico che
emittente e ricevente percepiscono in una comunicazione: concerne
l’attribuzione di senso e di significato del messaggio in base a
valori condivisi. Il senso di una parola o di una frase va
contestualizzato nell’ambito del discorso e delle conoscenze
condivise, include quindi il contesto in cui si esplica il processo
comunicativo, cioè l’interazione fra due o più interlocutori.
La pragmatica studia come ogni comunicazione influenza il
comportamento, che diventa a sua volta comunicazione. È la
dimensione riferita all’influenza che la comunicazione ha sul
comportamento, quindi all’aspetto performativo. Studia l’efficacia
della comunicazione e la modalità in cui la reazione del ricevente
influisce a sua volta sull’emittente. A livello pratico, lo studio
della pragmatica comprende anche quello della sintassi e della
semantica; è evidente che i tre settori sono interdipendenti, l’uno
influenza l’altro in maniera reciproca. Nello sport, conoscere
elementi di pragmatica della comunicazione è fondamentale, per
l’utilità pratica che ne deriva, in quanto permette di migliorare
la qualità della relazione, quindi la soddisfazione sportiva e,
talvolta, la performance. I dati della pragmatica sono le parole, le
loro configurazioni, i loro significati, ma anche fatti non verbali
concomitanti, i segni di contesto, il linguaggio del corpo e le mappe
interne di ogni individuo coinvolto nella relazione. In questa
prospettiva, tutto il comportamento (non solo il discorso) è
comunicazione e tutta la comunicazione influenza il comportamento. Se
ne deduce che, nei casi estremi, un sintomo o un malessere di un
atleta, in quanto comportamento, può essere considerato una
comunicazione all’interno del contesto in cui si manifesta, che
influenza profondamente l’ambiente. Secondo il principale modello
teorico che studia la pragmatica della comunicazione (Watzlawick,
Beavin, Jackson, 1971) esistono 5 principi esplicativi delle
interazioni umane, definiti assiomi della comunicazione.
GLI ASSIOMI DELLA COMUNICAZIONE
Gli assiomi della comunicazione sono alcune proprietà semplici che
chiariscono specifiche dinamiche interpersonali. Di seguito saranno
riportati i vari assiomi e spiegati in riferimento all’attività
sportiva:
Primo assioma: in una relazione è impossibile non comunicare.
Non esiste un “non comportamento”, qualsiasi cosa facciamo o non
facciamo rimane un comportamento, all’interno della relazione.
L’attività, l’inattività, le parole, il silenzio hanno tutte
valore di linguaggio: ogni comportamento influenza gli altri che a
loro volta non possono non rispondere. Se in una relazione
l’allenatore cerca di parlare a un suo atleta che tace e non
risponde (anche se sollecitato), quest’ultimo sta comunque
comunicando qualcosa (che non ha capito, che è arrabbiato, che non
vuol parlare, ecc.). L’allenatore reagirà a sua volta in base
all’interpretazione del silenzio dell’atleta (insistendo,
cambiando atteggiamento, lasciando perdere, ecc.). L’interpretazione
di questo comportamento/comunicazione dipenderà da vari fattori: il
tipo di relazione che intercorre tra i due, i segni non verbali, gli
scambi comunicativi precedenti, la modalità con cui l’allenatore
si è rivolto all’atleta. Osservare i processi di feed-back diventa
fondamentale.
Quando A (emittente) vuol comunicare qualcosa a B (ricevente), B ha
tre possibilità:
a. accettare la comunicazione: a livello di relazione
determina una conferma della relazione. Il senso del feed-back è
“hai ragione”. Nello sport, ne è un esempio l’atleta che
immediatamente esegue quanto suggerito dall’allenatore (“Ok,
mister!”).
b. rifiutare la comunicazione: a livello di relazione il
feed-back comporta un diniego: B fa capire ad A che non è d’accordo
su quanto asserisce quest’ultimo o sulle sue intenzioni. Il
rifiuto, a livello relazionale, può essere doloroso, ma implica un
riconoscimento dell’interlocutore, seppur limitato. Non nega la
realtà del giudizio di A su di sé, indica che B ha un altro
giudizio. Se A è disposto ad accettare questa comunicazione, il
rifiuto può essere costruttivo. Il senso generale del feed-back è
“hai torto”. Nello sport accade quando un allenatore dà dei
suggerimenti e l’atleta, dopo aver segnalato di aver capito, non
esegue quanto richiesto e fa deliberatamente di testa sua.
c. squalificare la comunicazione: a livello di relazione
comporta una disconferma. Quando una persona è messa alle strette in
una comunicazione, ma vuole evitare l’impegno di definirsi, può
rispondere invalidando le proprie comunicazioni o quelle altrui, per
esempio contraddicendosi, cambiando discorso, formulando frasi
incoerenti, reagendo in maniera anomala rispetto alla richiesta
dell’emittente. In questo caso, il ricevente non si occupa più
della verità o meno della definizione che A ha dato di sé, ma nega
la realtà di A come emittente di tale definizione. In generale, è
come se ribattesse: “tu non esisti, non considero il tuo
messaggio”. In questo caso, tra allenatore e atleta, si struttura
una comunicazione assurda in cui non si arriva a nulla di definito;
ciò che non funziona è la relazione.
Secondo assioma: ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e
uno di relazione in modo che il secondo classifica il primo ed è
quindi metacomunicazione.
In ogni comunicazione esistono due livelli: quello di contenuto, cioè
la mera informazione trasmessa e quello della relazione, attraverso
il quale si comunica la percezione che si ha di sé e dell’altro in
quella interazione. Non comunichiamo solo qualcosa, ma anche su
qualcosa. Il messaggio di relazione nasce dalle proprie fantasie e
aspettative e dice: “ecco come mi vedo rispetto a te in questo
momento”. Più importante di quello che uno dice è come lo
dice e come viene recepito. È raro che le relazioni siano definite
liberamente o con la piena consapevolezza: quanto più una relazione
è spontanea e sana, tanto più l’aspetto relazionale della
comunicazione recede sullo sfondo. Viceversa, le relazioni
disfunzionali sono caratterizzate da una costante lotta per definire
la relazione, mentre l’aspetto di contenuto della comunicazione
diventa sempre meno importante. La definizione della relazione è
strettamente dipendente dal tempo e dal luogo in cui avviene.
Solitamente il contesto è condiviso, ma può accadere che sia
percepito diversamente a seconda delle persone. La percezione
soggettiva del contesto viene definita metacontesto. Ad
esempio, se un atleta si presenta agli allenamenti vestito in maniera
elegante, significa che percepisce quel contesto come formale e
questo comunica qualcosa ai colleghi presenti.
Ormai diversi anni fa, durante i ritiri con la nazionale giovanile di
scherma, alcune atlete veterane, cioè le azzurrine convocate
per il terzo anno consecutivo, erano solite presentarsi agli
allenamenti di preparazione atletica con dei boxer maschili. Non che
fossero confuse sulla propria identità, ma attraverso
quell’abbigliamento comunicavano alle matricole, alle
neoarrivate, che loro erano così sicure di sé da potersi vestire in
qualsiasi modo e allo stesso tempo rimarcavano a delle potenziali
avversarie una differenza di età e di esperienza (quindi di potere),
che nell’adolescenza e negli sport di combattimento è
assolutamente rilevante. Il comportamento “estetico”, vale a dire
la conformazione fisica, l’abbigliamento, lo stato della pelle, il
trucco, la presenza o meno di tatuaggi, ecc., appartiene alla
comunicazione non verbale: in particolare, questi elementi sono
sovente usati per generare stati di inferiorità e sudditanza
psicologica negli avversari (Tamorri, Agosti, 1984). Basti pensare ai
colori delle maglie nelle squadre di calcio esibiti e rimarcati da
giocatori e tifosi; oltre a sottolineare l’appartenenza,
costituisco spesso elementi di provocazione e “sfida”.
Tali elementi contribuiscono a definire la relazione.
Il contesto serve a chiarire ulteriormente la natura della relazione
(come deve essere assunto il messaggio). L’aspetto di relazione sta
in una posizione meta rispetto a quello di contenuto, in quanto
fornisce informazioni su come quest’ultimo debba essere recepito.
Per questo molti genitori di atleti dovrebbero riflettere sul fatto
di dare consigli tecnici ai figli perché, nonostante la presunta
validità di quest’ultimi, è proprio il fatto che a passarli sia
un padre/madre e non l’allenatore che spesso non li fa recepire al
figlio. La relazione dà valore al contenuto del messaggio e in
questo senso è metacomunicazione, cioè comunica sulla
comunicazione.
Terzo assioma: la natura di una relazione dipende dalla
punteggiatura della sequenza di comunicazione tra i due comunicanti.
Gli esseri umani sono predisposti a spiegare gli eventi secondo un
rapporto di causa ed effetto di tipo lineare (“io mi comporto così
perché tu fai questo”) perché hanno bisogno di ordine. Questo
vale anche per le relazioni interpersonali: tipicamente, ognuno tende
a riferire sul comportamento dell’altro. Un pensiero rigido, di
attribuzione causale rigida, se diventa ripetitivo non consente di
trovare accordi, né vie di uscita e spinge ad emettere un giudizio.
Un esempio, l’allenatore afferma: “io alzo la voce perché tu non
mi ascolti.”
Mentre l’atleta risponde: “io non ti ascolto perché tu urli
sempre.”
Sarebbe estremamente utile che l’allenatore, in questo caso, si
soffermasse a pensare, in un’ottica circolare, “cosa sto facendo
io, che fa sì che il mio atleta non mi ascolti?”. Mentre l’atleta
potrebbe costruttivamente ragionare sul principio inverso. “cosa
del mio comportamento suscita le urla del mio allenatore?”.
Il pensiero lineare di causa-effetto avviene quando le persone che
interagiscono cercano la causa del proprio comportamento in quello
altrui, senza valutare la propria responsabilità nel suscitare una
certa risposta/comportamento. In queste situazioni possono nascere
conflitti estremamente aspri, perché questa rigidità impedisce ai
membri della relazione di modificare la propria modalità
comunicativa, poiché considerata conseguenza del comportamento
dell’altro. Il pensiero lineare è sterile, determina una
punteggiatura rigida che non offre alternative: lo psicologo dello
sport deve essere attento a individuare il punto di vista di ogni
partecipante alla relazione e a non assumerne uno fisso.
Quindi, come regola generale, possiamo estrapolare che in un
conflitto sterile e reiterato sarebbe molto più utile chiedersi cosa
faccio io che determina quel comportamento nel mio compagno?
Invece che andare avanti all’infinito a sottolineare le mancanze
dell’altro. Tale riflessione sulla propria modalità di comunicare
permette di compiere un salto logico e trovare soluzioni alternative
alla diatriba.
Quarto assioma: gli esseri umani comunicano sia con il modulo
numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una
sintassi logica assai complessa e di estrema efficacia, ma manca di
una semantica adeguata nel settore della relazione; mentre il
linguaggio analogico ha la semantica, ma non ha nessuna sintassi
adeguata per definire in un modo che non sia ambiguo la natura delle
relazioni.
La comunicazione avviene attraverso il canale verbale (scritto e
orale) e attraverso il canale non verbale (gesti, movimenti, parole
metaforiche, prossemica, postura, contatto oculare, abbigliamento,
ecc.). Nella comunicazione questi due livelli si mescolano e si
arricchiscono a vicenda, ma è tutta la comunicazione analogica (non
verbale) a metacomunicare sul linguaggio numerico (verbale).
Il linguaggio numerico è identificabile frequentemente con il
messaggio di contenuto: è connotato dalle parole e prevede una
convenzione semantica.
Nello sport esiste un linguaggio specifico della disciplina che tutti
i giocatori dovrebbero conoscere e condividere.
Se non c’è convenzione semantica, il messaggio può non essere
capito: questo è molto importante per i giocatori stranieri. Come se
la cavano allora quest’ultimi appena arrivati, quando non conoscono
ancora la lingua? Oltre a un traduttore, è fondamentale il piano
analogico che permette loro di intuire il contenuto, anche se non
sempre chiaramente.
Il linguaggio analogico non ha la negazione, né permette una
scansione temporale. Definisce molte cose sulla relazione, ma è
ambiguo. Comprende il linguaggio non verbale, il piano emotivo,
metaforico, relazionale e i segni di marca contesto. In una
comunicazione efficace occorre dare una numerizzazione corretta al
messaggio analogico. Ricerche (Visconti, 1999; Benzi, De Marco e
Moiso, 1999) dimostrano che i canali non verbali sono predominanti e
fondamentali per trasmettere informazioni che sono ricordate a medio
e lungo periodo. La valenza del messaggio è affidata in percentuale
a: 7% alle parole (canale verbale); 38% alla modalità vocale, cioè
tono, volume, pause, ritmo e accenti melodici (canale non verbale);
55% ai segnali del corpo, cioè mimica, gestualità e postura (canale
non verbale). Nel complesso, quindi, il 93% della comprensione di una
comunicazione è affidato a un messaggio condizionato dalla
comunicazione analogica.
Quinto assioma: tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici
o complementari a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla
differenza.
Nelle relazioni simmetriche il comportamento del partner rispecchia
quello dell’altro. Gli interlocutori assumono la stessa posizione
all’interno della relazione: superiore (one-up) e superiore oppure
inferiore (one-down) e inferiore. Le differenze sono ridotte ai
minimi termini; nelle interazioni simmetriche ciascun soggetto si
mantiene sullo stesso livello dell’altro.
Nelle relazioni complementari, invece, il comportamento di uno
completa quello dell’altro. Si costruiscono due posizioni
complementari, appunto: one-up e one-down oppure one-down e one-up.
Una relazione fondata principalmente sulla simmetria è portata a
strutturare grandi conflitti (escalation simmetrica), che possono
portare alla rottura della relazione. A livello di relazione, si
fonda sul rifiuto cronico reciproco.
Una relazione esclusivamente fondata prevalentemente o, peggio,
esclusivamente, sulla complementarità fa sì che non ci sia crescita
ed evoluzione (complementarietà rigida) degli interlocutori.
Alcune relazioni sono naturalmente prevalentemente complementari,
come quella genitore-figlio o allenatore-atleta, ma se rimangono tali
nel tempo impediscono la crescita e l’evoluzione di chi sta in
posizione one-down e del sistema stesso, creando un grave disagio e
strutturando comunicazioni basate sulla disconferma dell’altro.
Il leader di una squadra dovrebbe avere una posizione one-up rispetto
agli altri, ma se tale ruolo è conferito in maniera informale, non è
detto che tutti lo accettino e che tale posizione debba essere rigida
e assoluta.
Se nello sport c’è complementarietà rigida si possono
strutturare: caduta dei livelli di attenzione, interesse per aspetti
marginali dell’informazione e disattenzione per quelli centrali,
rapida saturazione del livello di apprendimento e vissuti di rabbia,
paura, noia.
In generale, una relazione è patologica quando una o l’altra
modalità (complementarietà o simmetria) sono pressoché costanti.
Complementarietà e simmetria dovrebbero appartenere a tutti i
rapporti a seconda delle circostanze. Una relazione è sana quando è
flessibile, in base alle circostanze. Una madre con un figlio avrà
una relazione prevalentemente complementare quando quest’ultimo è
piccolo, ma tanto più crescerà, tanto più dovrà lasciare spazio
affinché il figlio si ponga alla pari o addirittura in posizione
one-up. Un allenatore deve avere una posizione one-up con i suoi
atleti, ma deve anche lasciare loro lo spazio per esprimersi e
crescere. Durante una gara, invece, i ruoli devono essere definiti in
modo tale che sia chiaro chi guida e chi esegue.
Moltissimi conflitti sterili e ripetuti derivano da problematiche di
ruolo all’interno della relazione, non tanto dal contenuto.
Si ha una relazione metacomplementare (Watzlawick, Beavin e
Jackson, 1971) quando A consente a B di assumere la direzione
del proprio comportamento (di A) o lo costringe a farlo come se
dicesse: “accetto le tue decisioni, ma con riserva”. Un esempio
tipico si ha quando un allenatore accetta che sia il suo atleta a
stabilire una strategia di gara, pur non essendo d’accordo,
criticando poi alla fine quanto è stato proposto o semplicemente
spiegando alla fine perché quanto proposto non ha funzionato.
Tuttavia, se alla fine la strategia scelta dall’atleta ha avuto
successo, l’allenatore potrebbe anche riconoscere il merito della
scelta effettuata dall’atleta, riconoscendogli la capacità di
stare in posizione one-up, estremamente utile alla crescita emotiva
in termini di autoefficacia percepita e fiducia dell’atleta stesso.
Comunemente, si parla di Comunicazione ad una via o a senso
unico quando il ricevente non fa domande o commenti e
Comunicazione a due sensi o a due vie quando il
ricevente invia chiari messaggi di ritorno (Benzi, De Marco e Moiso,
1999). In realtà, tale considerazione è concettualmente errata,
perché anche la prima forma di comunicazione riceve dei feed-back,
perlomeno a livello di comportamento analogico. Per esempio, se
l’allenatore “ordina” un comportamento, l’atleta in campo non
discute (perlomeno non sempre), ma esegue o meno l’ordine. L’atleta
invia un segnale non verbale attraverso il suo
comportamento/atteggiamento che darà indicazioni rispetto alla
comunicazione e alla relazione (per esempio, potrà eseguire l’azione
prescritta oppure potrà eseguirla con in faccia dipinto il
disappunto oppure potrà assumere un atteggiamento di aperto rifiuto
che lo porterà a non eseguire l’azione o a eseguirla in maniera
ostentatamente fallimentare). L’allenatore a sua volta risponderà
in maniera circolare al feed-back ricevuto.
La comunicazione comunemente detta “a una via” è utile quando il
ricevente non è nelle condizioni di intervenire chiaramente nella
comunicazione attraverso messaggi di contenuto, come in una gara.
Solitamente questo tipo di comunicazione è più efficace e pratica,
ma affinché vada a segno occorre che i ruoli dei partecipanti
all’interazione siano ben definiti (relazione complementare) e
accettati da entrambi, che ci sia chiarezza di contenuto e coerenza
fra i canali verbali e non verbali (numerico-analogico).
La comunicazione a due vie è considerata più lunga e precisa:
emittente e ricevente sono coinvolti e ragionevolmente disponibili al
confronto e si passano feed-back reciproci. Se non ci sono problemi
rispetto alla definizione della relazione, questo tipo di
comunicazione è quella che permette di giungere a conclusioni più
dettagliate e chiare. In caso contrario può trasformarsi in un
estenuante conflitto (escalation simmetrica) o se non è possibile
per uno dei partecipanti assumere una posizione di confronto alla
pari (relazione prevalentemente complementare), possono emergere
gravi messaggi di disconferma.
La scelta del tipo di comunicazione, a una o due vie, va ponderata in
base alle necessità e agli obiettivi dell’emittente.
CONCLUSIONI
Il presente lavoro nasce da una rielaborazione teorica e pratica dei
principi della comunicazione a partire dalla Pragmatica della
comunicazione (1971) e delle principali ipotesi concettuali e studi
del settore (Nascimbene, 2011), unitamente all’esperienza sul campo
di chi scrive, sia come docente, che come psicologa dello sport
(Tortorelli, 2005, 2008, 2016).
Capita spesso, in contesti non patologici, ma sani quali quelli
attinenti allo sport che un lavoro sulle dinamiche comunicative
esistenti fra i vari atleti (compagni di squadra) e fra atleti e
allenatori chiarisca numerose situazioni di crisi e stimoli un modo
di entrare in rapporto più costruttivo e funzionale al benessere di
chi sta in campo e all’ottimizzazione della performance. Talvolta
questo tipo di lavoro risulta utile anche alle relazioni allargate
dell’atleta, cioè fra quest’ultimo e la famiglia d’origine e
fra quest’ultimo e la società sportiva.
Naturalmente, lo studio della comunicazione e l’intervento su e
attraverso essa sono estremamente utili anche nei casi di rilevanza
clinica, sia in ambito sportivo che psichiatrico.
Allo stesso tempo, è importante per lo psicologo dello sport avere
dimestichezza e familiarità con i principali concetti relativi alla
comunicazione in quanto la maggior parte del suo lavoro coinvolge
tale aspetto; attraverso la comunicazione egli costruisce ipotesi e
mette a punto, trasmettendole, procedure di intervento utili ad
aiutare gli atleti, gli allenatori e, in certi casi, anche la
dirigenza sportiva.
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