martedì 31 ottobre 2017

L’intervento sistemico relazionale a scuola

di Simona Gagliardi, psicologa psicoterapeuta, socia di CSAPR Prato.

La scuola rappresenta un sistema complesso, costituito da soggetti diversi per età, ruolo, competenze, professionalità, la cui convivenza spesso presenta delle problematicità e da cui possono emergere domande di cambiamento diversificate e non sempre consapevoli. Come professionisti possiamo, infatti, confrontarci con richieste provenienti dal contesto scolastico, a volte, ambigue o impossibili, che possono mettere alla prova le nostre competenze e esporre i nostri interventi a rischio di fallimento.
Nel corso degli anni di pratica professionale è stato possibile rispondere, per me e per le colleghe “sistemiche” con cui collaboro, a numerose richieste di intervento nel contesto scolastico partendo dall’analisi e dalla riformulazione della domanda. La formazione sistemico relazionale, infatti, rafforza ed arricchisce la possibilità di riformulare la domanda e ipotizzare l'intervento nell’ambito lavorativo non terapeutico ed in particolare rispetto alle richieste di intervento psicologico da parte degli Istituti Scolastici. (M.M. Togliatti, Tofani 1990; Palazzoli et Alt, 1976). Il modello sistemico è infatti un'epistemologia, prima di essere uno strumento di intervento nel micro-contesto della classe o della sede scolastica, un modo per conoscere il mondo e per “pensare” nuove soluzioni; come sostiene S. Cirillo "[…] se la nostra ottica sistemica è un modello interpretativo della realtà, una chiave di lettura, deve pur fornire degli strumenti di comprensione e di intervento anche nelle ”frange” non terapeutiche del nostro lavoro".
L’obiettivo dell’intervento sistemico relazionale, quindi, in un contesto scolastico è quello di costruire un intervento che, come avviene nella terapia della famiglia, utilizzi le informazioni, stabilendo fra esse collegamenti diversi, con l'aiuto e la collaborazione dei membri del sistema scolastico e, laddove possibile, di quello familiare, per giungere a nuove connessioni e interazioni, plausibili rispetto alla realtà già conosciuta, ma contemporaneamente contrastanti con essa, per offrire una visione alternativa e evolutiva della realtà. All’interno degli Istituti scolastici, con il gruppo docenti e con le classi è possibile, utile e necessario lavorare sistemicamente, per facilitare il cambiamento ed attivare risorse nuove, spesso proprio raccontando nuove storie.


L’INTERVENTO PSICOLOGICO NELLA SCUOLA UTILIZZAZIONE DELLE RISORSE DI UN SISTEMA COMPLESSO, COLLAB. E. GUIDA, NUOVA ITALIA SCIENTIFICA, 1986
BAMBINI DIVERSI A SCUOLA; BORINGHIERI 1974, 8 RISTAMPE; SECONDA EDIZIONE 1989.
BARBIERI M. L’INTERVENTO SISTEMICO NELLA SCUOLA. IN: ECOLOGIA DELLA MENTE 2002; 25, N° 2: 159-185.

BARBIERI M. LA CONSULENZA PSICOLOGICA NELLA SCUOLA ALLE FAMIGLIE CON FIGLI ADOLESCENTI. IN: IL VASO DI PANDORA 2006; 14, N° 2: 65-87.

BARBIERI M., GUERRINI A., MANFRIDA G. BAMBINI, ADOLESCENTI E ADULTI NELLA SCUOLA. IN: PSICOLOGIA E SCUOLA 2006-2007; 27, N° 132: 3-15.
CIRILLO S. (A CURA DI). IL CAMBIAMENTO NEI CONTESTI NON TERAPEUTICI. RAFFAELLO CORTINA EDITORE, MILANO, 199
M.M. TOGLIATTI, TOFANI 1990; IL GRUPPO-CLASSE SCUOLA E TEORIA SISTEMICO-RELAZIONALE
PALAZZOLI ET ALT, 1976 IL MAGO SMAGATO. COME CAMBIARE LA CONDIZIONE PARADOSSALE DELLO PSICOLOGO NELLA SCUOLA
L. MARTINOLI E C. RESSEGATTI “DIALOGANDO CON L'ASSENTE:COME INTERVENIRE IN ASSENZA DI UNA RICHIESTA TERAPEUTICA” RIVISTA DEL SERVIZIO DI SOSTEGNO PEDAGOGICO DELLA SCUOLA MEDIA, NO. 12, MARZO 1995, PAG. 23-30

L’INTERVENTO PSICOLOGICO NELLE SCUOLE: APPLIACAZIONE DEL MODELLO SISTEMICO AL CONTESTO SCOLASTICO A MARCIANO ECOLOGIA DELLA MENTE 1 2007

C CURONICI L BENESSERE A SCUOLA SI COSTRUISCE INSIEME: IL CONTRIBUTO DELL'APPROCCIO SISTEMICO Rivista del Servizio di sostegno pedagogico della scuola media – numero 19 2003

M. CIUCCI, S. SCAMPERLE, G. TODINI. "IL BAMBINO CON PROBLEMI SCOLASTICI. SCUOLA, FAMIGLIE, SERVIZI: DALLA CONTRAPPOSIZIONE ALLA COLLABORAZIONE". MARISA MALAGOLI TOGLIATTI, UMBERTA TELFENER, OP.CIT., P. 103.

giovedì 26 ottobre 2017

L'intervento nel contesto di tutela

di Alessandra Melosi, psicologa psicoterapeuta, socia e didatta di CSAPR Prato.


Il presente contributo prende spunto dalla mia esperienza come Supervisore presso il Centro Crisalide di Pistoia, servizio specialistico che si occupa di valutazione e cura di minori e delle loro famiglie nei casi di abuso, violenza e grave trascuratezza. Il Centro si ispira ad esperienze guida pioneristiche e di riferimento per tutti coloro che vogliono operare in questo ambito, come quella del Centro Aiuto al Bambino Maltrattato di Roma e del CBM di Milano.
Per riuscire a cogliere la complessità dei fenomeni legati alla trascuratezza, maltrattamento, abuso e mettere in atto efficaci strategie di intervento è fondamentale evidenziare il “gioco relazionale”, l’evoluzione trigenerazionale e l’esito che tutto questo ha avuto sullo sviluppo del figlio.
Un aspetto peculiare del lavoro in un contesto di tutela è l’assenza di una richiesta di aiuto spontanea da parte della famiglia, che giunge alla valutazione e all’intervento in seguito a provvedimenti del Tribunale.
Il terapeuta si trova ad utilizzare la richiesta della rete di tutela (Giudice, Servizi Sociali, Comunità per minori) per raccogliere materiale su cui lavorare. In questo contesto il terapeuta deve contrastare la negazione del problema e tentare di raggiungere il riconoscimento del danno inflitto ai figli da parte dei genitori. Per fare questo è necessario adoperarsi per costruire con loro una alleanza terapeutica e attuare interventi volti a connettere i comportamenti disfunzionali con le rispettive storie personali.
Questa prospettiva di intervento ha come obiettivo prioritario di preservare la relazione genitore - figlio, migliorandola ove possibile, ma anche di valutare e individuare per il minore, nel caso la recuperabilità genitoriale non sia possibile, soluzioni alternative stabili al di fuori della famiglia.

Alessandra Melosi


domenica 22 ottobre 2017

Psicologia dello sport e approccio sistemico relazionale

di Daniela Tortorelli, psicologa psicoterapeuta, didatta e presidente di Csapr Prato.

L’approccio relazionale permette di dare un senso al comportamento umano, dei singoli, delle coppie, delle famiglie e delle organizzazioni, perché insegna ad osservarlo nel contesto in cui si manifesta e offre strumenti di valutazione, lettura e intervento unici. Il pensiero circolare sistemico è solo una della possibilità che offre questo paradigma.
Quando ho conosciuto
il mondo della psicologia dello sport avevo già avuto una formazione relazionale; inoltre, ero stata un’atleta di alto livello. Per me è stato naturale usare in ambito applicativo le risorse e l’ottica sistemico-relazionale, perché il mondo dell’attività sportiva è fatto di relazioni che influenzano il benessere e il rendimento dell’atleta. L’approccio sistemico relazionale è stato per me un enorme valore aggiunto che ho integrato con gli strumenti di base comunemente usati in questa disciplina, che mi ha permesso di lavorare in realtà articolate e complesse come quelle del mondo sportivo in cui sistemi e sottosistemi si intrecciano e si influenzano reciprocamente, in realtà particolarmente articolate.
L’approccio relazionale è stato fondamentale nel fornire strumenti operativi e di valutazione sia per il mental training (concerne la possibilità di ottimizzare e talvolta migliorare la prestazione sportiva), sia per la promozione della salute e del benessere dell’atleta, della squadra, dei tecnici, delle famiglie, e della società sportiva.
Inoltre, lavorare relazionale mi ha permesso di ampliare le possibilità di intervento ad aree impensabili per uno psicologo dello sport che non conosce questo paradigma, estendendole anche a tutte quelle situazioni di confine con l’ambito clinico cosi frequenti nelle richieste di intervento sportivo.
Lo psicologo dello sport che si avvale del paradigma relazionale può cosi collocarsi come esperto del settore dotato di “una marcia in più” professionale, in quanto dotato di competenze psicoterapeutiche che lo mettono in condizioni di lavorare sia nell’area educativa che in quella della clinica sportiva, fino all’area delle organizzazioni, districandosi al meglio fra i vari tipi di richieste di aiuto.  

martedì 17 ottobre 2017

Sessuologia e modello sistemico relazionale.

di Silvia Grassitelli, psicologa psicoterapeuta, socia e docente di CSAPR.


Considero l'approccio sistemico-relazionale una chiave di accesso "universale" che mi ha permesso di entrare e orientarmi sin da subito in contesti di lavoro molto diversi: terapeutici e non, di gruppo e individuali, reti di lavoro e organizzazioni complesse. Un gran bel vantaggio!
Quello che però mi ha permesso di affrontare, varcata la soglia della psicoterapia, è la stretta connessione che i sintomi  hanno con la vita relazionale delle persone. È così che ho potuto apprezzarne davvero il valore terapeutico.
Molto presto nella mia esperienza clinica mi sono imbattuta con difficoltà legate alla vita intima, con i disturbi sessuali maschili, femminili e non solo di coppia. Sembrava un mondo a parte, in alcuni casi lontano da quello che avevo immaginato e da un lavoro possibile. Eppure interventi mirati e circoscritti o dalla dicitura iper specialistica, avevano spesso risposto all'urgenza e alla esasperazione dei pazienti, senza riuscire a dare risultati convincenti o duraturi nel superamento del disagio e delle difficoltà. Questo non rendeva certo le cose più facili, ma mi spingeva ad approfondire con gli strumenti a mia disposizione e ad addentrarmi nelle singole storie per capire cosa potevo fare.
Quello che man mano è diventato più chiaro è che anche la vita intima ha radici profonde nelle  relazioni piú significative. Per questo è connessa spesso alle difficoltà di svincolo, talvolta alle esperienze traumatiche di relazione, ma anche alla difficile ricerca della propria identità o al bisogno di stabilità personale. Ecco su cosa è necessario fare luce per costruire un cambiamento profondo e completo! 
Inaspettatamente l'ambito sessuologico è stato per me una strada di scoperte illuminanti. 

È andata proprio così.. ma credo che questo sia solo uno dei percorsi possibili per conoscere la forza del nostro modello.

venerdì 13 ottobre 2017

Il modello sistemico relazionale e il lavoro con le adozioni

di Chiara Benini, psicologa psicoterapeuta, didatta e socia di CSAPR Prato 

In campo adottivo il nostro lavoro è principalmente quello di preparare i genitori sia all'esperienza genitoriale che a quella adottiva, accompagnare la fase intermedia di avvicinamento, conoscenza e viaggio all'estero e sostenere le diverse componenti della famiglia nelle vicissitudini che seguono l'inserimento, con richieste che giungono da scuola, famiglie o adottati, talvolta anche molti anni dopo. Ci confrontiamo sia con aspetti profondi quali generatività,
identità, appartenenza, che con letture e decisioni prese a volte in contesti culturali molto diversi e che come tali vanno “tradotti” a chi qui li riceve. Spesso anche nella stessa coppia adottiva vi sono livelli di maturità e bisogni interni differenti, che devono essere visti nelle loro dinamiche relazionali sia in rapporto a ciascuna famiglia di origine, sia nell'attuale dinamica di coppia ed infine nel ripercuotersi sul funzionamento genitoriale e familiare; a volte è necessario aiutarli a fermarsi, rinunciare, altre incoraggiarle e sostenerle nel proseguire. Gestire separazioni, ricollocamenti e talvolta fallimenti, capire quali speranze per questi bambini siano realistiche e utili da coltivare e quando invece aiutare a rivedere i propri sogni è una responsabilità è grande hanno già avuto gravi ferite e un nostro errore può davvero pregiudicarne il futuro. Non di rado siamo chiamati a cambiare la lettura, cognitiva ed emotiva, di fatti e di relazioni non semplici, che muovono sentimenti molto profondi e spesso poco consapevoli, sia in chi come genitori e figli sono direttamente implicati, sia in chi con poca o nessuna preparazione è coinvolto: parenti, amici, istituzioni ma anche psicologi, pedagogisti, avvocati... In tutto questo il pensare in modo sistemico relazionale è fondamentale per non cadere in facili semplificazioni, per guidare il cambiamento riuscendo a vederne conseguenze e sfaccettature e giungere a soluzioni efficaci e rispettose di tutte le persone coinvolte, dei loro sentimenti e, non ultimo, delle realtà complesse che le circondano.

mercoledì 11 ottobre 2017

TERAPIA SISTEMICA CON LA PATOLOGIA CRONICA

di Chiara Contini, psicologa psicoterapeuta, socia e docente di CSAPR Prato.


Da alcuni anni, in qualità di psicoterapeuta, collaboro con l’Associazione Italiana Sclerosi Multipla (A.I.S.M) nella sezione di Prato, a contatto con pazienti che spesso combattono contro una profonda sofferenza psicologica, oltre a quella fisica inflitta dalla malattia. La sclerosi multipla è, infatti, una patologia a decorso cronico che altera profondamente lo stile di vita di chi ne è affetto e spesso causa ripercussioni su tutta la rete familiare e relazionale. Queste persone vivono, in seguito alla diagnosi, una fase di “lutto” che, come ci insegna Cancrini (1), da un punto di vista psicologico non è legato solo alla morte, ma è “l’insieme delle reazioni con cui si tenta di controllare il dolore legato alla perdita di qualcosa di importante”; queste persone “perdono” infatti la percezione di sé come persone normali e ciò si ripercuote spesso anche sulle loro relazioni, intra ed extra familiari. Diviene quindi indispensabile avere strumenti e capacità cliniche per lavorare anche in un ambito così complesso e delicato come quello della patologia cronica. Quando si lavora in terapia individuale con un paziente, il terapeuta sistemico sa bene quanto sia fondamentale avere ben chiaro nella mente il sistema di relazioni della persona che si ha di fronte e ritengo che ciò sia ancora più importante quando si ha a che fare con pazienti affetti da una patologia potenzialmente invalidante, quando il supporto di altri diviene essenziale. Nell’esperienza clinica con questi pazienti, mi sono accorta che il loro mondo relazionale è particolarmente delicato e spesso esposto a rischi proprio a causa della patologia, per certi aspetti forse anche maggiormente rispetto ai pazienti che quotidianamente riceviamo nel nostro studio. Avere una formazione sistemico relazionale mi permette di lavorare su più livelli (individuale, di coppia e familiare) in modo efficace e, in particolare con questi tipi di pazienti, l’attenzione agli aspetti relazionali diventa fondamentale se non vogliamo che la patologia li blocchi in schemi di relazione disfunzionali o che il loro ciclo di vita subisca una battuta di arresto, visto che spesso la SM diviene, sia per il paziente che per i familiari, la loro “realtà dominante quotidiana” (2), la lente attraverso la quale viene data una spiegazione a tutto, comprese le difficoltà relazionali. La versatilità dell’approccio sistemico e la sua applicabilità a più ambiti (come anche i gruppi di sostegno terapeutico con portatori di SM) rende tale approccio estremamente efficace e completo, permette di ottenere ottimi risultati, anche in situazioni difficili, delicate ed estremamente dolorose come quelle di persone condannate a convivere con una patologia per cui non è ancora stata trovata una cura.




  1. Cancrini L., Date parole al dolore. Milano: Frassinelli Editore, 1996
  2. Manfrida G., La narrazione psicoterapeutica. Invenzione, persuasione e tecniche retoriche in terapia relazionale. Milano: Franco Angeli Editore, 1998

martedì 10 ottobre 2017

L’approccio sistemico relazionale nella supervisione di progetti per migranti e richiedenti asilo

di Valentina Albertini, psicologa psicoterapeuta, socia e didatta Csapr.


Negli anni universitari, orientati alla psicologia dei gruppi e delle organizzazioni prima, e della psicologia sociale e di comunità poi, sembrava impossibile pensarmi a lavorare in ambito clinico: troppo individuo, troppo intrapsichico per me! Nel tempo ho però scoperto l’orientamento sistemico relazionale, rimanendone affascinata. Portava a sintesi tutto quello che fino a quel momento avevo amato: le dinamiche dei gruppi, le relazioni personali e sociali, il coinvolgimento di più attori nei processi di cambiamento, la non neutralità dello psicologo. Da quel momento qualcosa è cambiato, e immaginarmi psicoterapeuta non è stato più così difficile.
La promessa di ampia applicabilità del paradigma sistemico che tanto mi aveva fatta innamorare è stata dalla formazione successiva completamente mantenuta ed ho avuto ed ho tuttora la possibilità di utilizzare le competenze sistemiche in molteplici contesti (organizzazioni, associazioni di volontariato, aziende) dove nel tempo mi è capitato di fare consulenze e formazione.
Due anni fa, contattata da un ente che si occupa della gestione di Centri di Accoglienza Straordinaria per migranti e progetti per richiedenti asilo, ho iniziato l’avventura della supervisione degli operatori che lavorano in questo ambito.
L’approccio sistemico in questo lavoro è stato molto utile: mi ha infatti permesso di lavorare su tre livelli contemporaneamente: un livello individuale riguardante i vissuti personali degli operatori nel loro lavoro a contatto con le storie dei migranti, difficili e ad alto impatto emotivo; un livello relazionale del gruppo-colleghi, un luogo che, se funziona, può diventare un contenitore utile a prevenire il burnout degli operatori; un livello relazionale fra il gruppo operatori e l’esositema-associazione, all’interno del quale a volte possono crearsi frizioni o conflitti.
Avere una formazione sistemica in questo contesto è stato come avere più occhi per guardare un fenomeno complesso le cui dinamiche si sviluppavano a più livelli, e rappresentano in varie maniere un incontro fra culture differenti.

Ma la visione sistemica è, per sua natura, interculturale: noi sappiamo che già osservando un sistema ne facciamo parte, ed è la nostra chiave di lettura che condiziona le relazioni che si creano. Dopotutto, come dice l’antropologo Marco Aime, “la cultura non è il comportamento umano, ma la chiave che usiamo per leggerlo e interpretarlo”. E l’approccio sistemico dà proprio questo: una chiave di lettura e interpretazione delle culture che ogni sistema umano porta con sé.

lunedì 2 ottobre 2017

La Psicoterapia Individuale Relazionale Sistemica

di Erica Eisenberg, psicologa psicoterapeuta.  

Quando ero all’università di psicologia tutto mi pareva distante rispetto al mio desiderio di aiutare le persone, non riuscivo a vedere un modello di riferimento che fosse profondo e concreto allo stesso tempo ed abbastanza rapido per stare al passo con i tempi. Ho trovato tutto questo nella scuola di specializzazione dove mi sono formata, il Centro Studi ed Applicazione della Psicologia Relazionale di Prato.
Faccio terapie familiari e di coppia, ma prevalentemente terapie individuali da molti anni. Lavorare in terapia individuale in maniera sistemico relazionale significa affrontare i problemi dei pazienti sia su un piano sintomatico che su uno più profondo tenendo sempre in testa le loro relazioni importanti, le famiglie di origine, i compagni e le compagne, i colleghi, le amicizie. In tanti anni di lavoro ho visto che i pazienti necessitano di indicazioni concrete per gestire le relazioni problematiche: inoltre occorre mettere in collegamento le difficoltà che incontrano con tratti di carattere disfunzionali loro e di altre persone con le quali si trovano a relazionarsi, in modo che arrivino a modificare il loro stile relazionale con un cambiamento che sia protratto nel tempo. La terapia, anche in un setting individuale, è sempre popolata da tante persone collegate al paziente; la capacità di avere in testa i contesti con i quali ognuno di loro si confronta permette di aiutarlo concretamente per far sì che i suoi cambiamenti, che possono indurre delle perturbazioni nelle relazioni con altri, possano essere controllati e gestiti al meglio, basta pensare ai problemi legati allo svincolo ed alle resistenze spesso opposte dalle famiglie.
Mi colpisce poi molto la comune necessità dei pazienti di trovare un senso al perché i sintomi si siano manifestati proprio in un determinato momento. Probabilmente esprimono con questa ricerca il bisogno di trovare un senso a quello che succede, per tornare a sentirsi protagonisti della loro vita; in effetti capire la nostra storia, rintracciarne un senso nelle origini familiari e relazionali è una sana consapevolezza, una base sicura per andare avanti ed affrontare le turbolenze alle quali il mondo esterno mette inevitabilmente di fronte.
Infine, lavorare in modo sistemico in terapia individuale vuol dire lavorare continuamente con la nostra relazione con il paziente: attraverso la relazione terapeutica si realizzano quei cambiamenti nel suo carattere che poi si sedimentano in profondità e prevengono ricadute sintomatiche o consentono di gestirle attraverso la consapevolezza e gli strumenti acquisiti durante la psicoterapia.

E’ un viaggio bellissimo con il nostro paziente, può avere una durata molto breve se l’obiettivo è risolvere la situazione sintomatica ed un pò più lungo, ma sempre con tempi ragionevoli ed incontri meno frequenti, se la psicoterapia mira ad un cambiamento di aspetti del carattere. E’ un viaggio sia per noi psicoterapeuti che per i pazienti in cui impieghiamo come risorsa anche i vissuti emotivi, un percorso che richiede a noi terapeuti in particolare la massima dedizione ed il massimo amore verso il prossimo. Come dice Gianmarco Manfrida: “La psicoterapia è l’ultima attività magica che alcuni di noi praticano usando se stessi e la parola per cambiare la realtà”, ma la magia non è improvvisazione, non sforna miracoli, richiede impegno e dedizione, impegna testa e cuore, non è mai scontata nè garantita, ma una quotidiana conquista che ci rende più umani.