mercoledì 17 aprile 2019

Il disturbo ossessivo compulsivo nei bambini attraverso gli occhi di una terapeuta relazionale e...del suo paziente.

di Daniela Tortorelli, psicologa psicoterapeuta.


INTRODUZIONE

Viene presentata una breve storia, sotto forma di narrazione diretta, estrapolata dai racconti e dai ricordi di una paziente adulta (35 anni) in terapia individuale. La storia narra di una fase della vita in cui la paziente ha sofferto di disturbo ossessivo compulsivo all’età di 9 anni.
Come spesso accade nel trattamento dei bambini con disturbi di area nevrotica, un sintomo importante può svanire con la rapidità con cui è arrivato, se muta il contesto relazionale in cui il sintomo si manifesta.
La paziente narra del rapporto con il padre che cerca di compiacere e con la madre alla quale si affida con più facilità. Quest’ultima, è il perno della comunicazione familiare che media tra il marito e la figlia.
La rilettura finale della paziente relativa ai motivi della sua guarigione è estremamente importante, in quanto diventa un elemento che accresce la sua autostima. La bambina di allora pensò di aver risolto da sola il sintomo; l’adulta di oggi lo conferma, con l’aggiunta (sana) di qualche riflessione. Quando il paziente si scopre “capace di” si configura un elemento estremamente importante nella risoluzione delle psicoterapie.

STORIA

Avevo circa 9 anni: me lo ricordo, perché ci eravamo trasferiti da poco nella casa nuova.
I miei genitori erano stressati e presi da mille incombenze, mentre io, che non avevo più amici, mi ero ritrovata sola per interi pomeriggi a giocare nel salotto non ancora arredato.
Mi ero fatta regalare una macchina da scrivere (forse oggi i ragazzi neppure sanno cosa sia!) e per me era qualcosa di magnifico. Una domenica pomeriggio venne a trovarci Laura, mia cugina, che rimase folgorata dalla mia macchina.
Ovviamente mi chiese di provarla.
Ovviamente glielo concessi, seppur a malincuore: mi alzai dalla sedia e le lasciai il mio posto davanti alla mia macchina. Mia cugina aveva 8 anni più di me e i miei la ritenevano una ragazzina viziata.
Ricordo ancora il disagio nascere dentro di me una volta che, rimasta di nuovo sola con il mio “gioco”, iniziai a toccare tutti i tasti tre volte. Era sorta in me la paura di diventare come Laura, di “identificarmi in lei”, come dicevo allora. Se avessi toccato quei tasti dopo di lei sarei diventata come lei, ritoccandoli avrei annullato l’effetto (essendo il secondo tocco, quello precedente sarebbe stato il mio), con il terzo tocco sarei rientrata completamente in me…
Il rituale iniziò così e piano, piano, si estese in altri contesti. Mi ricordo quando ero a scuola: capitava che qualche compagno usasse i miei pennarelli o si sedesse nella mia sedia, ecc. e io, con noncuranza, cercando di non farmi vedere, toccavo tutto tre volte…a meno che non ci fosse passato prima qualcuno che apprezzavo molto. In quel caso accettavo volentieri il “contagio”.
I miei genitori si accorsero molto presto di questi rituali e iniziarono a chiedermi cosa stesse accadendo. In realtà se ne accorse mia madre, che informò mio padre (ma non ricordo di averne mai parlato a luilui era sempre distante, inarrivabile, esigente…). Mia madre era molto preoccupata e, in men che non si dica, mi ritrovai in una stanza asettica (sono proprio sicura che fosse in un ospedale), seduta, con accanto mia mamma e di fronte uno strizzacervelli, con addosso un camice bianco (sarà un ricordo falsato?) che chiedeva quale fosse il problema.
“Mia figlia tocca tutto tre volte!”. E lui, scrutandomi da dietro la scrivania mi chiese cosa mi preoccupasse.
In pochi minuti decisi che quello sconosciuto era troppo invadente e non avrebbe potuto capire. E poi, cosa avrei dovuto spiegare? Che temevo di “identificarmi in un altro che a me non piaceva?”. Mi avrebbe preso per pazza. Decisi allora di raccontargli qualcosa di “neutro”, di “adatto a uno psicologo”…in fondo ero una bambina brava e ubbidiente.
Allora, parlai della Mary e della Baby, le mie due amichette della piscina, bravissime a nuotare e molto più spregiudicate di me (mio padre diceva proprio così: spregiudicate) e meno pensierose.
In effetti, questo era stato un vero problema per me, ma a pensarci bene, oggi, da qualche mese era svanito. In quel momento, la Mary e la Baby erano lontane dai miei pensieri mille miglia. Lo strizzacervelli blaterò qualcosa a mia madre, se non ricordo male qualche consiglio da passare a papà sul modo adeguato di comportarsi in questi casi (dottoressa, scusi, ma gli psicoterapeuti attivano risorse, non danno consigli, giusto?).
Sulla strada del ritorno mia madre sembrava un po’ più sollevata. Rimanemmo in silenzio per tutto il tragitto. Pensai che questo era veramente troppo: “pure uno strizzacervelli che fa il saputello!”. Ero proprio stufa di stare dietro a ogni cosa così a lungo, la mia vita era diventata un inferno. Decisi che era il momento di smettere. E così fu: all’incrocio, davanti casa mia, guarii.
Non so se quel dottore fosse davvero uno sciocco che avevo rigirato come volevo (giuro che questa era stata la mia intenzione!) o viceversa un grande terapeuta (chissà! Forse mi aveva prescritto il sintomo e io non me lo ricordo!) o semplicemente un professionista che cercava di fare il suo lavoro con i suoi mezzi e un po’ di buonsenso: a me è sempre piaciuto pensare che fosse vera la prima ipotesi.
Solo oggi ricordo che la Mary e la Baby avevano cessato di essere così importanti nei discorsi di mio padre e nei miei pensieri, giusto prima del trasloco e della macchina da scrivere…
Vuoi vedere che lo strizzacervelli era riuscito a fregarmi?
No, non è possibile!

CONCLUSIONI

Il racconto narrato dalla paziente ormai adulta durante una seduta esemplifica le grandi risorse che possono essere attivate dalle persone e in particolare dai bambini; risorse che andranno a costruire e rinforzare il concetto ormai diffuso di resilienza. Ma anche la storia, così come viene narrata oggi, parla di una realtà dominante (Manfrida, 2014) piuttosto positiva del soggetto, il quale si rappresenta capace di introspezione e sicuro di essere riuscito (e riuscire) a padroneggiare certe situazioni.
A ben guardare, il tema presentato si presta a riflessioni ben più profonde sul rapporto fra la paziente e suo padre, in particolare su un antico bisogno di essere accettata e amata da quest’ultimo; bisogno che la bambina padroneggia con il rituale ossessivo che le dà una parvenza di controllo e che sigilla la rabbia sottostante.
Il sintomo ossessivo mostra infatti un nodo fatto spesso di rabbia, controllo e senso di colpa che imprigiona chi lo manifesta e spesso il terapeuta che tenta di scioglierlo, tanto può essere stretto. Poter lavorare sulla realtà dominante del soggetto, sulle possibilità alternative, sul contesto in cui il disturbo si manifesta, sulle relazioni significative che lo nutrono e lo sostengono è fondamentale per il suo…scioglimento.

Bibliografia
Manfrida G., La narrazione psicoterapeutica. Invenzione, persuasione e tecniche retoriche in terapia relazionale (II ed). Milano, FrancoAngeli, 2014.