lunedì 25 novembre 2019

Quando le relazioni familiari diventano violenza: un’epidemia sociale sottovalutata

a cura di G. Roberto Troisi, didatta CSAPR



Da circa vent’anni, insieme a varie colleghe, opero all’interno di un servizio di volontariato, il Centro di Aiuto Psicologico della Misericordia di Prato, che, grazie alla presenza di questi volontari e dei tirocinanti che frequentano il CSAPR1 di Prato, offre un servizio di assistenza alle famiglie con problematiche connesse alla sofferenza in famiglia e alla violenza intrafamiliare.
Il fenomeno della violenza intrafamiliare è estremamente diffuso: tra il 2009 e il 2014 2[1] l’Istat stima in 427.000 i bambini che hanno assistito a scene di violenza familiare grave. Solo nel 2017 ci sono state 123 morti. Sempre l’Istat calcola in 6 milioni e 788 mila le donne che hanno vissuto una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Oltre la metà delle donne con figli che hanno subito violenza dichiarano che questi hanno assistito a tale violenza. Stiamo parlando di un numero enorme di donne e bambini che hanno avuto (ed hanno) contatto continuo con situazioni traumatiche e che hanno sviluppato (e continuano a sviluppare, anche se in modi non sempre visibili), conseguenze gravi o gravissime sulla loro salute mentale.
In tutto questa enorme tragedia cosa possono fare gli psicoterapeuti?
Nel corso degli ultimi dieci anni ci siamo posti al servizio delle vittime collaborando con servizi dedicati, come il Centro Antiviolenza Femminile di Prato (CAV La Nara), integrando il loro intervento a carattere legale e di assistenza psicosociale, con il nostro intervento a carattere più strettamente psicologico familiare e psicoterapeutico.
Questo ci ha permesso di notare l’estrema difficoltà ad affrontare il complesso tema delle conseguenze della violenza intrafamiliare, subita direttamente o assistita, sui vari membri della famiglia e gli apparenti paradossi che questo genere di situazioni viene a creare.
Curiosamente una tematica così direttamente connessa alle relazioni familiari presenti e passate non sempre riceve un’attenzione orientata alla complessità del fenomeno stesso, anche a causa delle continue emergenze che genera, mettendo gli operatori in una situazioni di gestione costante della crisi.
Da questo punto di vista poter osservare con un’ottica relazionale i vari livelli di complessità, avendo la possibilità di stare in una posizione più esterna alla condizione di emergenza, ci ha permesso di notare alcune caratteristiche peculiari:
  • la grande difficoltà a chiedere aiuto psicologico da parte delle vittime (anche quando questo viene offerto e costruito con operatori amici);
  • la difficoltà a mantenere una frequenza costante del percorso psicologico o psicoterapeutico quando avviato;
  • la difficoltà a esprimere alcune emozioni, come la vergogna, che possono spingere a sottostimare la pericolosità della situazione fino a ritirare la denuncia;
  • la costanza di fattori di rischio nelle storie sia delle vittime che degli aggressori, uniti da incastri di coppia perversi (storie di violenze familiari assistite o subite);
  • l’estrema confusione con cui queste persone arrivano a fare una richiesta, coinvolgendo in questo anche gli invianti stessi.

Quando abbiamo potuto seguire anche degli “uomini maltrattanti”, partner che si sono presentati spontaneamente perché impauriti dalle proprie reazioni violente (o dalla fantasia di compiere azioni violente contro sé e i propri familiari), abbiamo potuto raccogliere storie di bambini fortemente maltrattati, ma l’accesso a queste storie è quasi sempre estremamente difficile; la prima reazione infatti è quella di negare o sottovalutare le loro origini familiari. A tale schema talvolta colludono anche operatori del settore che, riguardo i maltrattanti, negano la presenza delle infanzie infelici.
La mancanza di ascolto di queste storie, il sentirsi trascurati emotivamente, la confusione degli stili di attaccamento (a. ambivalente o a. confuso), la mancanza del senso di protezione (solo per accennare ad alcune gravi ferite emotive) portano spesso a isolamento, dissociazione e chiusura emotiva.
Questa esperienza mi ha indotto a interessarmi con maggior attenzione al fenomeno della cura delle persone vittime di situazioni traumatiche intrafamiliari.
Lavorare con le vittime significa lavorare con l’intero contesto di crisi, sia attuale sia quello presente nella loro storia; significa dedicare più tempo a instaurare la fiducia che va conquistata un pezzo alla volta; significa non dare mai per scontato che offrire aiuto sia visto come un sollievo ma, talvolta, può riattivare il senso di vergogna e quindi la diffidenza verso la mano che si sta allungando.
In tutto questo, purtroppo, gli stereotipi e i pregiudizi diffusi sui social media sono un forte ostacolo e credo sia importante che gli operatori sociali contribuiscano a superarli, contrastandoli in tutti i modi.
Ci consolano i risultati (ancora troppo pochi) che stiamo ottenendo con le persone che seguiamo e l’ampliamento graduale della rete di collaborazione.
Un storia alla volta!

1 Centro Studi Applicazione Psicoterapia Relazionale Prato