a cura di G. Roberto Troisi, didatta CSAPR
Da
circa vent’anni, insieme a varie colleghe, opero all’interno di
un servizio di volontariato, il Centro di Aiuto Psicologico della
Misericordia di Prato, che, grazie alla presenza di questi volontari
e dei tirocinanti che frequentano il CSAPR1
di Prato, offre un servizio di assistenza alle famiglie con
problematiche connesse alla sofferenza in famiglia e alla violenza
intrafamiliare.
Il
fenomeno della violenza intrafamiliare è estremamente diffuso: tra
il 2009 e il 2014 2[1]
l’Istat stima in 427.000 i bambini che hanno assistito a scene di
violenza familiare grave. Solo nel 2017 ci sono state 123 morti.
Sempre l’Istat calcola in 6 milioni e 788 mila le donne che hanno
vissuto una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Oltre la
metà delle donne con figli che hanno subito violenza dichiarano che
questi hanno assistito a tale violenza. Stiamo parlando di un numero
enorme di donne e bambini che hanno avuto (ed hanno) contatto
continuo con situazioni traumatiche e che hanno sviluppato (e
continuano a sviluppare, anche se in modi non sempre visibili),
conseguenze gravi o gravissime sulla loro salute mentale.
In
tutto questa enorme tragedia cosa possono fare gli psicoterapeuti?
Nel
corso degli ultimi dieci anni ci siamo posti al servizio delle
vittime collaborando con servizi dedicati, come il Centro
Antiviolenza Femminile di Prato (CAV La Nara), integrando il loro
intervento a carattere legale e di assistenza psicosociale, con il
nostro intervento a carattere più strettamente psicologico familiare
e psicoterapeutico.
Questo
ci ha permesso di notare l’estrema difficoltà ad affrontare il
complesso tema delle conseguenze della violenza intrafamiliare,
subita direttamente o assistita, sui vari membri della famiglia e gli
apparenti paradossi che questo genere di situazioni viene a creare.
Curiosamente
una tematica così direttamente connessa alle relazioni familiari
presenti e passate non sempre riceve un’attenzione orientata alla
complessità del fenomeno stesso, anche a causa delle continue
emergenze che genera, mettendo gli operatori in una situazioni di
gestione costante della crisi.
Da
questo punto di vista poter osservare con un’ottica relazionale i
vari livelli di complessità, avendo la possibilità di stare in una
posizione più esterna alla condizione di emergenza, ci ha permesso
di notare alcune caratteristiche peculiari:
- la grande difficoltà a chiedere aiuto psicologico da parte delle vittime (anche quando questo viene offerto e costruito con operatori amici);
- la difficoltà a mantenere una frequenza costante del percorso psicologico o psicoterapeutico quando avviato;
- la difficoltà a esprimere alcune emozioni, come la vergogna, che possono spingere a sottostimare la pericolosità della situazione fino a ritirare la denuncia;
- la costanza di fattori di rischio nelle storie sia delle vittime che degli aggressori, uniti da incastri di coppia perversi (storie di violenze familiari assistite o subite);
- l’estrema confusione con cui queste persone arrivano a fare una richiesta, coinvolgendo in questo anche gli invianti stessi.
Quando
abbiamo potuto seguire anche degli “uomini maltrattanti”, partner
che si sono presentati spontaneamente perché impauriti dalle proprie
reazioni violente (o dalla fantasia di compiere azioni violente
contro sé e i propri familiari), abbiamo potuto raccogliere storie
di bambini fortemente maltrattati, ma l’accesso a queste storie è
quasi sempre estremamente difficile; la prima reazione infatti è
quella di negare o sottovalutare le loro origini familiari. A tale
schema talvolta colludono anche operatori del settore che, riguardo i
maltrattanti, negano la presenza delle infanzie infelici.
La
mancanza di ascolto di queste storie, il sentirsi trascurati
emotivamente, la confusione degli stili di attaccamento (a.
ambivalente
o a. confuso),
la mancanza del senso di protezione (solo per accennare ad alcune
gravi ferite emotive) portano spesso a isolamento, dissociazione e
chiusura emotiva.
Questa
esperienza mi ha indotto a interessarmi con maggior attenzione al
fenomeno della cura delle persone vittime di situazioni traumatiche
intrafamiliari.
Lavorare
con le vittime significa lavorare con l’intero contesto di crisi,
sia attuale sia quello presente nella loro storia; significa dedicare
più tempo a instaurare la fiducia che va conquistata un pezzo alla
volta; significa non dare mai per scontato che offrire aiuto sia
visto come un sollievo ma, talvolta, può riattivare il senso di
vergogna e quindi la diffidenza verso la mano che si sta allungando.
In
tutto questo, purtroppo, gli stereotipi e i pregiudizi diffusi sui
social media sono un forte ostacolo e credo sia importante che gli
operatori sociali contribuiscano a superarli, contrastandoli in tutti
i modi.
Ci
consolano i risultati (ancora troppo pochi) che stiamo ottenendo con
le persone che seguiamo e l’ampliamento graduale della rete di
collaborazione.
Un
storia alla volta!
1
Centro Studi Applicazione Psicoterapia Relazionale Prato