mercoledì 9 dicembre 2020

Skam Italia

a cura di Simona Gagliardi, Psicologa e Psicoterapeuta

Quando è stata l’ultima volta che siete stati adolescenti? Beh, se faccio due conti, anagraficamente per me è passato un po’ di tempo, ma grazie alla serie Skam Italia ho rifatto un tuffo piacevole, quasi commovente, in questa età così delicata e tormentata, che sempre di più merita l’attenzione e l’interesse da parte di noi psicologi e psicoterapeuti, rispetto allo sviluppo ed al ciclo di vita dell’individuo e del sistema familiare.

La serie è ambientata in un liceo romano, in una media borghesia; viene fuori, quindi, un’ immagine complessiva di un'adolescenza “pulita”, non troppo problematica o disagiata, come può a volte rivelarsi, che sembra, comunque, veritiera e attuale.

I personaggi sono caratterizzati, per rendere chiaramente riconoscibili dei tratti (es. Silvia, ingenua, attenta alla moda ed alla linea); c’è poi come il mondo snob, quelle dell’impegno sociale e artistico ecc. In ogni caso l’insieme non risulta superficiale.

Le stagioni della serie sono 4, come l’originale norvegese, ed ognuna si concentra su un/una protagonista e su una differente tematiche adolescenziali. Non rivelerò troppo della trama: l’amore è il filo rosso. Nella prima stagione la protagonista è Eva, alle prese con gelosie, sensi di colpa e difficoltà di inserimento delle nuova sede scolastica; nella seconda il protagonista è Martino, alla scoperta del suo orientamento sessuale. La terza serie racconta l’amore, un po’ più stereotipato forse, tra Eleonora ed il bello e dannato della scuola, ma emergono anche aspetti legati a situazioni di rischio. La quarta stagione è, secondo me, quella che acquisisce più spessore e profondità nell’affrontare la rabbia e le paure di Sana, alla ricerca della sua integrazione sociale e culturale e della sua identità di donna.

Rimane più sullo sfondo l’aspetto del rapporto dei protagonisti con i genitori e con la famiglia; emerge in parte la situazione familiare di Martino ed il rapporto con la madre o quello di Silvia con il padre.

Si affaccia, inoltre, sulla scena anche il personaggio dello psicologo scolastico, un po’ “romantico” e naif sulle diagnosi ma comunque positivo per i ragazzi. Lo sportello d’ascolto si trova in una aula fatiscente, un po’ emblema delle difficoltà della scuola e dello scarso riconoscimento della figura professionale.

4 stagioni viste in 4 giorni: sono stata trascinata dal liceo romano al mio liceo…un turbinio di emozioni, ricordi, sorrisi ed anche, forse, rimpianti. Ma in fondo sogni, amori, speranze, dubbi, sfide, ideali, passioni tutto condito dall’amicizia, così forti ed assoluti in adolescenza, non sono poi quel sale da aggiungere ogni giorno alla nostra vita per ricreare e fare sempre una piccola e grande rivoluzione?

lunedì 2 novembre 2020

“Brevemente risplendiamo sulla terra” di Ocean Vuong

 a cura di Claudia Innocenti, Psicologa e Psicoterapeuta

L'amore al suo meglio non fa che ripetersi.

Scelsi questo libro, come spesso mi capita, attratta dal titolo e dalla copertina, un cervo col corpo proteso in avanti ma voltato indietro fermo su delle strisce pedonali, sullo sfondo una una strada sfocata. Nonostante le recensioni entusiastiche del gruppo di lettori che seguo, decisi di non voler minimamente capire di cosa parlasse, per scoprirlo da sola. É la storia di Little Dog, di sua madre Rose e di sua nonna Lan. Tre soldati che combattono una guerra che parte da lontano, in Vietnam, dove una giovanissima Lan partorisce una figlia nata da uno stupro da parte di un soldato, dopo essere scappata da un matrimonio combinato ed essersi concessa una sorta di rinascita decidendo di chiamarsi Lan, che è il nome di un fiore, facendo poi la stessa cosa anche per la figlia. Rose che cresce in un Vietnam distrutto, con una madre che per camparla deve prostituirsi ed è affetta da schizofrenia, decide dopo aver perso un figlio in maniera devastante, una volta che Little Dog è più grande, di seguire il grande sogno americano e darsi una nuova possibilità.


Little Dog, un bambino che si trova in questo nuovo enorme paese a vivere una guerra diversa da quella della nonna e della mamma ma non meno difficile: è lo sgorbio del quartiere, il muso giallo, quello diverso con la mamma strana, quello che non appena comincia la scuola si trova a dover fare da traduttore a mamma e nonna perchè non sono riuscite ad imparare l'inglese, colui che permette a loro di trovare un modo per integrarsi nella nuova vita, colui che in qualche modo porta avanti il compito che è spettato a nonna e poi mamma, ovvero salvarli. La nonna ha provato con la figlia, ma non ci è riuscita, le resta solo il nome del fiore, la figlia ha provato con la madre portandola negli Stati Uniti con loro, ma oramai la guerra è dentro Lan e non può più uscire. Adesso tocca a lui essere il tramite tra quello che è il passato e quello che potrà essere il futuro. Little Dog combatte anche un'altra guerra, quella per la sopravvivenza dagli scatti di violenza da parte di una madre affetta da disturbo posta traumatico da stress “una volta sono spuntato fuori e ti ho gridato “boom”, tu hai urlato col volto contorto e rastrellato...ti sei artigliata il petto mentre cercavi riparo nel vano della porta, senza fiato...io ero un bambino americano che imitava quello che vedeva in tv, non sapevo che avevi ancora la guerra dentro, non sapevo neanche che c'era stata una guerra, che una volta entrata in te non se ne va, ma resta a rimbombare, un suono che ha la forma del volto del tuo bambino. Boom.”. “Quando finisce una guerra? Quando potrò pronunciare il tuo nome e fare in modo che combaci solo con il tuo nome e non con tutto ciò che ti sei lasciata alle spalle?” si chiede Little Dog.

Questo libro è una lettera che l'autore scrive alla madre per spiegargli com'è riuscito finalmente a diventare uno scrittore e ad accettare la sua vera identità, ma è anche una storia della loro memoria, di cosa vuol dire essere combattenti ed avercela fatta, nonostante le ferite ancora aperte. É un testamento di amore verso queste due donne, Lan che lo ha sempre protetto raccontandogli storie e mettendosi tra lui e rose quando lei scattava picchiandolo con qualsiasi cosa gli capitasse a tiro, o di come quando lui nasce decide di dargli il nomignolo di Little dog, perchè cosi facendo lo avrebbe protetto dagli spiriti malvagi che vagano sulla terra alla ricerca di bambini belli e sani, non lo avrebbero mai avvicinato sapendo che aveva un nome del genere, anche se cagnolino secondo Lan aveva in sé una grande tenerezza, quella che lei ha sempre provato per il nipote. Una nonna che nel trauma vissuto e ancora vivo fornisce tramite questo nome uno scudo protettivo al nipote, un tentativo ultimo di proteggere ciò che ancora è innocente, ciò che ancora non è stato spezzato dalla guerra.

Questa lettera è un ringraziamento verso la mamma e la nonna, l'unica famiglia che lui ha avuto, ma è anche una testimonianza di resilienza, di come nonostante il trauma che aleggia sulla testa dei nostri tre protagonisti, colui per il quale le due donne hanno tanto lottato ce l'ha fatta, e ce l'ha fatta anche per loro due, nonostante loro due siano state in diversi momenti carnefici involontarie nella vita di Little Dog. C'è un passaggio molto profondo in cui Rose dal nulla dice al figlio “Non sono un mostro. Sono una madre.” e Little dog lo sa “Forse mettere le mani su tuo figlio significa prepararlo per la guerra”.

Dopo aver letto questo meraviglioso testamento di un ragazzo ancora giovanissimo ma che sa quanto alle volte la vita pur non finendo può morire, credo di aver capito l'importanza del titolo e dell'immagine di copertina. Chi ha vissuto una guerra, di qualsiasi tipo, sa quanto breve e difficile da vivere può essere la vita da sopravvissuti, ma la lotta per renderla risplendente non si ferma mai, anche se è un continuo affanno, una strada in salita costellata di mine che esplodono ad ogni passo che i tre protagonisti fanno, si può vincere. Il cervo credo che sia la metafora perfetta del nostro Little dog, bello, fiero, eretto e solo in mezzo ad una strada da percorrere, in attesa di proseguire, proteso in avanti ma voltato indietro alla sua memoria, alla sua storia, alle sue cicatrici perchè come dice lui alla madre “una ferita è anche il punto in cui la carne rincontra se stessa, chiedendo all'altra estremità: dove sei stata?”.

Terminata questa lettura mi è subito venuta in mente una frase di Karen Blixen sull'importanza di dare voce al dolore che dice: “Tutti i dolori sono sopportabili se li si fa entrare in una storia, o se si può raccontare una storia su di essi.”

Buona lettura!



martedì 13 ottobre 2020

La Corona va avanti

a cura di Valentina Albertini, Psicologa, Psicoterapeuta, didatta CSAPR

Il trigenerazionale all'interno della famiglia Windsor e nella serie "The Crown".

Lo storico Harari, nel suo libro "Sapiens" teorizza che il grande successo evolutivo della nostra specie sia dovuto alla capacità di creare e raccontare storie socialmente condivisibili, che diano un senso di comunione e comunità ad ampi gruppi di persone, favorendone la coesione. Delle realtà dominanti (Berger e Luckmann, 1966, Manfrida 1996) sufficientemente belle da motivare e tenere insieme grandi gruppi di persone. 

Partendo da questo assunti, dell'uomo come grande raccontastorie, ci sono molte storie collettive che acquisiscono un senso diverso. Quelle delle casate reali sono probabilmente un esempio esemplificativo. 

Questo credo lo possa condividere chiunque stia seguendo su Netflix la serie "The Crown ". 
C'è qualcosa di ipnotico e surreale nell'immaginarci, nel 2020, l'esistenza di casate reali. Sembrano così demodeé, così fuori tempo, che da cittadini di una Repubblica viene quasi da sghignazzare. 

Eppure, proprio come dice Harari, sono storie come quella dei Windsor che contribuiscono, probabilmente, a creare una coesione nazionale forte fra gli inglesi, che comunque mostrano per i loro reali un grande interesse, che a volte sfiora la morbosità. 

Mi ero avvicinata a "The Crown" tempo fa in maniera dubbiosa e circospetta, chiedendomi cosa mai ci fosse di interessante da raccontate su un personaggio apparentemente così noioso come la Regina d'Inghilterra.

Bene, mi sbagliavo. Certamente non è una serie da fuochi d'artificio o colpi di scena e fiato sul collo, ma è un buon prodotto che racconta un pezzo di storia contemporanea in maniera non noiosa e anche, a volte, colorita. 

Gli sceneggiatori di serie, insomma, non finiscono mai di stupire.

Mi ha talmente incuriosito che ho continuato a seguire su Netflix documentario sui Windsor, entrando a far parte di quella narrativa condivisa di cui parla Harari e della quale anche noi parliamo, quando diciamo di essere immersi in "quotidiane realtà banali dominanti" (Manfrida, 1996).

Al di là del tema storico e sociologico, livello sistemico c'è una cosa che mi ha molto colpito nella storia raccontara da The Crown. 

Noi terapeuti parliamo di "trigenerazionale" riferendoci a quei fenomeni che, in una famiglia, si ripetono di generazione in generazione sebbene non vi siano, ad esempio a livello genetico, delle motivazioni perché ciò accada.

Questo lo spieghiamo sottolineando come la famiglia sia una realtà psichica che precede gli individui e agli individui sopravvive. Una famiglia è infatti una organizzazione sociale che ha al proprio interno delle regole, una cultura, una struttura: l'analisi del trigenerazionale permette di vedere quanto, nel passare del tempo, certi schemi di comportamento vengano mantenuti, come segnale della difficoltà degli individui a svincolarsi dal sistema familiare di riferimento. Certi copioni funzionano infatti in maniera inconscia dentro di noi e continuano a ripetersi finché non li analizziamo e ne diventiamo consapevoli, aprendo la possibilità di neutralizzarli. 

In terapia familiare, ad esempio, questo assunto teorico è alla base della tecnica del genogramma: uno strumento utile appunto a far emergere non solo la storia della famiglia, ma anche pattern di funzionamento e eventi che si ripetono, generazione dopo generazione.

Ora, se esistono famiglie che della rigida trasmissione dei copioni comportamentali ne fanno addirittura una regola, sono quelle reali, che per necessità storica e sociale rappresentano il non-cambiamento, la tradizione, la solidità del nome che si tramanda.
Anche con qualche artificio: quello dei Windsor infatti è un casato "inventato", preso a prestito dal nome del castello di famiglia nel 1917 quando, in piena prima guerra mondiale, essere la famiglia di origini tedesche Sassonia-Coburgo-Gotha non era proprio il massimo per farsi amare dal popolo inglese.
Giorgio V, nonno dell'attuale regina, è stato quindi il primo sovrano Windsor.
A lui è succeduto Edoardo VIII, conosciuto in famiglia come David, e passato alla storia per aver rinunciato alla corona nel 1936 per poter sposare Wallis Simpson, americana pluridivorziata che, proprio per questo passato niente affatto candido, non avrebbe mai potuto sedere accanto al Re di Inghilterra.

Dopo l'abdicazione di Edoardo VIII è quindi salito al trono Giorgio VI, padre di Elisabetta, che ha regnato dal 1936 fino alla morte nel 1952. Da allora, è cronaca.

Ragionando di trigenerazionale, la figura di Edoardo VIII è fondamentale nella casata dei Windsor: personaggio conosciuto e amatissimo dal popolo, sebbene assai discusso e discutibile a livello politico, la sua abdicazione mise molto a rischio la Corona,  che già era caduta dalle teste reali di mezza Europa in tutto il '900. 
Riuscire a mantenere trono e magia, mentre i sovrani di mezza Europa venivano detronizzati, e portarle fino ad oggi nonostante gli scandali e i cambiamenti sociali, è stato indubbiamente un grande successo dei Windsor.

Successo che a livello privato ha avuto un prezzo: proprio Edoardo VIII mise in dubbio la centralità della Corona rispetto alla vita privata, creando nella storia familiare una specie di "trauma" e mettendo in discussione il verbo familiare: la Corona avanti a tutto. 

 Paura che si è tramandata ed ha avuto i suoi effetti: uno di questi si chiama Camilla Parker Bowles. Sappiamo dalle cronache che il Principe Carlo era innamoratissimo di lei, che lo ricambiava ma.. non era il tipo di donna adatta a diventare un giorno regina. E seppure possa sembrare un'usanza medievale, lo spettro dello scandalo Wallis Simpson era talmente presente, talmente forte, che a Carlo fu impedito di sposare Camilla. Cosa fece Carlo, e come andò, lo sappiamo tutti: sposò Diana, figura che comunque portò un grande scandalo a Palazzo, e un grosso rischio per i Windsor, per poi divorziare, e sposare Camilla. 

Ora, matrimoni di reali con donne divorziate che rischiano di mettere in crisi la Corona.. Vi viene in mente nulla? 

Fossero vostri pazienti, sicuramente la diagnosi sarebbe chiara: pare che siano i matrimoni a mettere a rischio i Windsor, generazione dopo generazione.

È oggi vediamo Harry e Megan. Matrimonio da favola seguito in streaming da mezzo mondo, discussione familiare e successiva rottura. Di nuovo, come una coazione a ripetere. 

Per tutti noi comuni mortali che non abbiamo il capo appesantito da diademi e stemmi reali, il trigenerazionale ci apre una possibilità, dicendoci che se a un certo punto il pattern familiare emerge e viene discusso, questo è già un punto per poter impedire conseguenze emotivamente faticose per gli individui. I singoli membri possono svincolarsi dal mandato familiare e cercare la propria strada, continuando ad appartenere alla famiglia.

Il trigenerazionale però a volte fa del mantenimento rigido di copioni una opzione per la sopravvivenza. Ma è un'illusione: i sistemi troppo rigidi non interagiscono con l'ambiente finendo per scomparire, e le famiglie sono sistemi.

Perché le storie sono importanti, ma come diceva Darwin: non sono i più forti o i più intelligenti a sopravvivere, ma i più adattabili all'ambiente.

venerdì 14 agosto 2020

"Il colibrì" di Sandro Veronesi

a cura di Simona Gagliardi, Psicologa, Psicoterapeuta 

Il Colibrì di Sandro Veronesi, vincitore del Premio Strega 2020, è uno dei libri che ho letto durante la quarantena, in compagnia fra gli altri di un altro finalista, La misura del tempo di Gianrico Carofiglio. Scelte di lettura “facili”, non casuali di questo tempo sospeso, in cui la lista dei libri da leggere ha come sempre continuato a crescere ma che, pur nella maggiore disponibilità di tempo, ha visto momenti in cui la mente non sempre era capace di trovare la concentrazione ed il “rilassamento” favorevoli per la lettura. Così a domicilio ho ricevuto Il colibrì, con la certezza che mi avrebbe preso, così come ha fatto: mi è piaciuto, pur non ritenendolo, comunque, personalmente un romanzo capolavoro.

Già con Terre rare ed il più famoso Caos Calmo ero stata accompagnata dallo stesso autore alla scoperta del mondo dei vissuti del protagonista Pietro Paladini, questa volta Veronesi racconta la vita di Marco Carrera, mentre si intreccia a quella di altri, parenti, amici e l’amore. Un punto di vista sull’universo maschile nuovamente interessante, un personaggio a cui affezionarsi. Marco è il colibrì, “come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo”. Ma lo stare fermo di Marco non appare essere uno stato di inedia o abulia quanto l’espressione di una forza d’animo, di un’onestà e di una capacità, pur nei limiti di piccoli ‘infantilismi’ o egoismi, di prendersi cura delle persone che si amano.

La struttura del romanzo non è lineare, la storia è descritta attraverso episodi di vita-passato, presente e futuro prossimo- che si intrecciano senza un ordine temporale e che sono intervallati dallo scambio epistolare fra il protagonista e Luisa, l’amore della vita, e dalle lettere che Marco scrive, senza ricevere risposta, al fratello Giovanni nel tentativo di ritrovare un dialogo con lui.

Le vicende narrate si svolgono fra Roma, Firenze e Bolgheri in un’ambiente alto borghese. Tanti sono i personaggi che compaiono: la sorella tormentata, la coppia infelice di genitori, la fragile ex moglie, la figlia, la nipote, l’eterno amore, il fratello… e tante sono le sfumature relazionali di coppia e familiari su cui ci fa riflettere. Il finale ha suscitato molte perplessità fra i lettori, in effetti appare anche a me un po’ forzato, ma si muove, comunque, nel segno della coralità e della speranza.

Si affaccia inoltre, sin dall’incipit del romanzo, lo psicanalista Daniele Carradori, che decide di dedicarsi con umanità ed umiltà alle situazioni di emergenza e traumatiche e che rappresenta nelle vicissitudini dolorose di vita di Marco un ascolto attento e un sostegno importante. Ci lasciamo proprio con un loro scambio, per ricordarci che nella vita spesso ci ritroviamo ad affrontare il dolore, quello delle malattie ed in particolare quello della perdita più o meno traumatica, delle persone che amiamo. Provare a lasciare andare il dolore, che ci indurisce anche nel corpo, allora diventa l’impegno più grande da affrontare, aggrappandoci alle risorse ed alle piccole cose che ci rimangono o che possiamo ancora immaginare.

Dottor Carradori: Lavoriamo sui desideri, sui piaceri. Perché anche nella situazione più disastrosa i desideri e i piaceri sopravvivono. Siamo noi che li censuriamo. Quando siamo colpiti dal lutto censuriamo la nostra libido, mentre é proprio quella che può salvarci. Ti piace giocare a pallone? Giocaci. Ti piace camminare in riva al mare, mangiare la maionese, dipingerti le unghie, catturare le lucertole, cantare? Fallo. Questo non risolverà nemmeno uno dei tuoi problemi ma nemmeno li aggraverà, e nel frattempo il tuo corpo si sarà sottratto alla dittatura del dolore, che vorrebbe mortificarlo. 

Marco: E io che dovrei fare? 

Dottor Carradori: Non lo so, sono cose complesse, non si possono dire per telefono. Ma, di base, deve tenere a mente che lei é fragile, in questo momento, che è in pericolo. E deve cercare di salvare dal naufragio tutte le cose che le piacciono. Gioca ancora a tennis? 

Buona lettura, buona partita.

venerdì 10 luglio 2020

La casa di carta

a cura del didatta Giuseppe Roberto Troisi



La casa di Carta oltre ad essere una avvincente serie tv è una storia interessante dal punto di vista sistemico e relazionale per vari motivi.
La storia in breve: un gruppo di fuorilegge, capitanati dal “professore” ingaggia una lotta contro il “sistema” proponendosi come la “resistenza” e organizza un piano, “Il PIANO”, come agente perturbatore del sistema stesso. Loro non sono dei “ladri” bensì dei “partigiani”, facendo riferimento alla storia del padre del professore, ex partigiano spagnolo nella resistenza antifascista italiana. Il Piano non mira a derubare il popolo o la banca, tecnicamente loro non ruberanno niente! Obiettivo ufficiale della loro azione sarà usare la Zecca di stato per stampare soldi, soldi che non esistono e che loro creeranno per metterli a disposizione della gente!
Questa operazione mina alla base le fondamenta del potere dello Stato, il potere di creare e controllare il simbolo della ricchezza, i soldi, e quindi ne attireranno le difese più estreme. Tuttavia loro conoscono i protocolli del sistema e il Piano, studiato da oltre 20 anni, ha previsto tutto il gioco di azioni, reazioni e provocazioni, giocando sempre con almeno 2 mosse di vantaggio, come ogni bravo scacchista sa.
La genialità del Piano, dunque consiste in questo: come un “Virus” loro useranno le enormi risorse dell’organismo “Stato” a loro favore per entrare nella Zecca e, sfruttandone le regole e i limiti procedurali, potranno “rubare” il Tempo, il tempo necessario a stampare i soldi.
Tutto questo costituisce l’ideologia del gruppo messo in piedi dal professore!
Il gruppo è costituito da fuorilegge dalla diversa personalità e storia che, prima di poter agire, deve “imparare” a essere un gruppo nonostante le diverse origini. Per questo il professore li tiene segregati insieme a “studiare” il piano, per diventare una mente omogenea.
Ovviamente le cose andranno come previsto solo fino a un certo punto: dopo alcuni passaggi ben eseguiti, come in una tragedia greca (i cui riferimenti sono espliciti) il Caos irrompe e sconvolgerà la situazione costringendo a improvvisazioni da una parte (la banda) e dall’altra (la polizia), con intrecci sempre più complessi.
Dal punto di vista sistemico relazionale ci sono moltissime riflessioni: innanzi tutto l’azione sistemica, dichiarata fin dall’inizio, di agire come forze sociali “perturbatrici”!
Il professore ha previsto il ruolo fondamentale dell’opinione pubblica. La rapina si dovrà svolgere davanti a due ordini diversi pubblico: il gruppo di ostaggi che, come il Coro Greco, svolgerà un proprio ruolo con tanto di divisa (la tuta rossa e la maschera di Dalì) e il più ampio pubblico della opinione Pubblica (Tv e Social) a cui ammicca per guadagnarne la simpatia.
La narrazione ci porta a comprendere meglio i meccanismi di comunicazione di massa attuali in modo sempre più sofisticato, mostrando la sostanziale coincidenza tra controllo delle informazioni, controllo delle relazioni e potere stesso.
Ci mostra anche come le dinamiche relazionali del gruppo chiuso dentro la Banca fanno saltare le regole di ingaggio scritte dal professore: aspetti narcisistici, movimenti borderline, la paura, incidenti vari porteranno a intrecci sempre più complessi e cambi di ruolo sorprendenti che ci ricordano come le storie emotive non scritte spesso si affermano su quelle razionali ma non contestualizzate ovvero non rispettose delle trame personali di ciascuno.
Ci mostra anche come i sistemi perturbati possono generare soluzioni originali impreviste ma che portano allo stesso risultato per strade alternative e originali. Per certi aspetti si potrebbe dire che gli scrittori e sceneggiatori della serie abbiano avuto in mente Bateson e il concetto di “Mente Ecologica” insieme ai teorici della comunicazione di massa e degli approcci narrativi: l’azione di piccoli agenti perturbatori in punti “caldi” possono provocare uragani inaspettati e imprevedibili!
La storia nella storia della serie è coerente con questo: “la casa di carta”, scritta per la tv spagnola sembrava destinata a chiudersi dopo una poco fortunata seconda stagione.
Tuttavia Netflix la inserisce nel suo catalogo e, nonostante sia in lingua spagnola, attraverso il passaparola ottiene un seguito ampio e di altissimo gradimento tanto che la maschera di Dalì, la tuta rossa (o gialla) e la canzone “Bella Ciao” (in italiano) diventano inni della lotta al “sistema” in numerosi paesi di tutto il mondo.
Probabilmente il professore e la sua banda di fuorilegge hanno toccato lo spirito del tempo più di altre serie, talvolta con aspetti profetici. Invito a guardarla fino alla quarta stagione, quella con più colpi di scena.
Mi auguro di scrivere a breve una seconda parte con l’analisi psicopatologica relazionale dei vari personaggi.

martedì 9 giugno 2020

"Cambiare l'acqua ai fiori" di Valérie Perrin


a cura della didatta Barbara Bertelli


Non sei più dove eri,
ma sei ovunque sono io.


Ho letto il romanzo di Valérie Perrin in tempi "non sospetti", mesi prima dell'emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 in Europa. È forse per questo che ho potuto apprezzarne il contenuto (l'universale esperienza umana della perdita), senza il soffocante condizionamento provocato dalla pandemia, che ha stravolto persino la distinzione tra eventi normativi e paranormativi, sfumandone i confini.
Cambiare l'acqua ai fiori è un romanzo sul distacco a. c. (avanti coronavirus), un romanzo che colpisce il lettore seguendo una traiettoria inversa rispetto a quella virale: dall'unicità del vissuto individuale alla condivisione di un'esperienza collettiva.
Violette Touissaint (Touissaint in francese significa "Ognissanti") è la guardiana di un piccolo cimitero della Borgogna. È una donna che vive ascoltando gli altri, probabilmente per non ascoltare se stessa, che cela un segreto che il lettore scoprirà solamente dopo la comparsa di un poliziotto marsigliese arrivato per conoscere l'identità dell'uomo accanto a cui la madre ha chiesto di essere sepolta. Da quel momento il libro si tinge dei colori dell'arcobaleno (#andràtuttobene?): dal nero al rosa, passando per il giallo, ricalcando fedelmente il dipanarsi della vita, che, per sua natura, prevede e comprende la morte.
Ma andiamo per gradi: Violette è una donna pratica e, allo stesso tempo, dotata di grande sensibilità, "sospesa" in un presente stagnante: le sue giornate si susseguono reggendosi su un equilibrio fatto di distacco emotivo e operosità metodica. Il lettore inizialmente non conosce gli eventi che hanno concorso nel farla diventare ciò che è, ma ne registra la sofferenza e scorge, dietro all'efficienza manifesta, il tentativo di sopravvivere ad una storia di dolore e difficoltà.
La storia di Violette è una storia complicata da un lutto patologico. Volendo ricostruire l'intreccio del romanzo in ordine cronologico (perdendo così l'80% del fascino del libro) si assiste all'evolversi di un destino che pare ineluttabile. La protagonista è stata abbandonata in fasce da una madre che non ha mai conosciuto. "Ho cominciato malissimo (...). Mia madre non mi è mai mancata, tranne quando avevo la febbre. Quando stavo bene crescevo, venivo su dritta come se l'assenza di genitori mi avesse applicato un tutore lungo la spina dorsale. Mi tengo dritta, è una mia peculiarità. Non mi sono mai piegata, neanche nei periodi di maggior dolore. Spesso mi chiedono se abbia fatto danza classica. Rispondo di no, che è stata la quotidianità a darmi una disciplina, a farmi allenare ogni giorno alla sbarra e sulle punte."
Voilà la scissione! Piccola nota di colore: persino il guardaroba di Violette è doppio! Ne ha uno privato, colorato che indossa nelle sue "estati serali", e uno pubblico, grigio ed impersonale, che veste nei quotidiani inverni. Forse V. Perrin avrebbe potuto pensare ad un nome composto per la protagonista del suo romanzo: Violette Hiverine! Già Roberto Vecchioni con la sua Viola d'inverno (s-fortunata coincidenza!) aveva saputo rendere la morte un accadimento naturale, semplice e, nello stesso tempo, solenne.
E dopo un'infanzia di abbandoni, un'infanzia "non curata"... Naturalmente non poteva mancare un incastro di coppia da manuale: lei, l'ultima degli ultimi, e lui, il belloccio/inconsistente di turno alle prese con uno svincolo ribelle/rabbioso. Il tutto inserito in un sistema di supporto sociale ed economico del tutto carente. È proprio il caso di dirlo: cronaca di una morte annunciata; dove purtroppo la morte è reale, innaturale ed improvvisa, anche se non direttamente collegata alle difficoltà psicologiche dei due personaggi. Quali possono essere gli effetti di una perdita su di loro? Ovviamente disastrosi. Racconteranno (a se stessi e al piccolo mondo che frequentano) storie banali e superficiali, senza riconoscere né ammettere che è il lutto, un lutto patologico, a sancire la fine della loro fragile storia. E la distanza tra loro diventerà incolmabile: due copioni diversi per due sorti opposte.
Violette ha i "limiti" delle eroine dei romanzi d'amore (dell'Amore in tutte le sue forme), all'interno dei quali occasioni fantastiche e profetiche sostituiscono il duro lavoro psicoterapeutico, meno romantico ma sicuramente più efficace. Sarà bene però non svelare altro!
Violette ha coraggio: un coraggio intimo che sprona a far leva principalmente su se stessi, un coraggio che impone di far quadrare la "contabilità familiare" (I. Boszormenyi-Nagy, 1973) senza affidarsi o pretendere risarcimenti esterni, il coraggio di guardare in faccia la morte, anche la più ingiusta ed inaccettabile. La protagonista è addirittura in grado di autoprescriversi un "compito", una "cerimonia di addio" (S. Di Caro, 2017), che rappresenta sia una chiusura sia una ripartenza.
Cambiare l'acqua ai fiori è un romanzo che colpisce per la sua semplicità (non banalità), per l'assenza di pretese intellettualoidi, che non impediscono all'autrice di "fotografare" la Vita, quella vera, autentica, che sopravvive ad ogni dolore.
Per questo motivo... consigliatissimo anche nel d.c. (dopo coronavirus)!

Edizioni e/o


lunedì 25 maggio 2020

Famiglie fantastiche: domande e risposte


a cura del Direttore del CSAPR Dott. Gianmarco Manfrida


Perché ho scelto come tema la famiglia nei serial Fantasy?
Perché in un lavoro presentato al congresso Sippr da un gruppo di allievi veniva posto l’ interrogativo se sono le serie che prendono spunto dalla vita o la precedono. E dunque, le serie tv di oggi che famiglia ci stanno raccontando? Quella del presente o quella che verrà?
Nella storia delle serie TV si passa dalla rappresentazione della famiglia patriarcale alla narrazione di una famiglia ipermoderna.
Oggi le trame raccontano temi civili e politici: omogenitorialità, separazioni, divorzi, famiglie monoparentali, da cui emergono i fattori tipici di quella "società liquida” descritta da Bauman, dove i ruoli sono meno definiti.
E’ possibile che la vita sia influenzata dalle serie e le influenzi: dopotutto esse devono conquistarsi uno share capace di garantire loro la sopravvivenza, per questo, specialmente quelle realizzate da compagnie private, raccolgono e ripropongono i temi di attualità: omosessualità, adolescenti che si tagliano, droga.
Nel Fantasy però i margini di influenza della realtà sono più ridotti, l’ambientazione fantastica riduce all’ osso lo sfruttamento di temi di attualità, quindi attraverso l’ immagine della famiglia nelle serie fantasy si dovrebbe accedere a significati meno influenzati dall’ attualità e dalla moda. e più vicini a temi mitici e di antico significato, per quanto rivisitati e riprodotti con uno spirito più moderno.
Inserire in un serial poliziesco ambientato ai tempi attuali scene di omosessualità femminile corrisponde ad uno sdoganamento in corso di questo tipo di rapporto nella società; ma non avrebbe senso costruire uno dei temi portanti di un fantasy su questo tema, l’ effetto di sconcerto creato dalla sua novità verrebbe annegato nell’atmosfera mitica e astorica del Fantasy. Più probabile quindi che un tema del genere resti sfiorato e accennato tanto per attrarre una fetta di pubblico, ma non venga preso come elemento fondamentale della trama.

Serial fantasy presi in esame e osservazioni sulla loro rappresentazione delle famiglie: Game of Thrones, C’ era una volta e Shannara.

Shannara. La più adolescenziale delle serie tv. Le famiglie esistono solo per sparire presto e lasciare ai giovani tutto lo spazio che hanno difficoltà a trovare nella vita reale, non solo in Italia. Si tratta di adolescenti superdotati sul piano fisico, veri eroi dotati di straordinarie doti di coraggio e determinazione, impegnati in storie di sentimenti con sporadico sesso. Molti di loro hanno la magia che scorre nel sangue e consente, pagando un prezzo di sofferenza, di salvare il mondo…o a qualcuno di minacciarlo. I genitori sono un ingombro: le madri compaiono pochissimo, i padri sono vecchi e ingenui o morti da tempo, di loro si raccoglie un’eredità simbolica legittimante ma non stanno tra i piedi a complicare le cose e ridurre la libertà d’azione dei figli. Nelle ultime puntate assistiamo alla ricerca da parte di una giovane maga del padre superdruido che nega esser lei sua figlia: non essendo disponibile il test del DNA, la magia si scontra con i suoi limiti e ancora la questione non è sciolta. Tuttavia, la giovane ha le idee chiare: “Io non ti voglio come padre, non mi interessa, posso fare da me, voglio che tu mi insegni come impiegare meglio la magia”. E pensare che il druido anzianotto iniziava ad addolcirsi….
Insomma, è un serial all’ insegna della rottamazione degli anziani e dei genitori, in cui trionfa l’ aspirazione adolescenziale a salvare e riorganizzare il mondo, che nella versione a loro trasmessa risulta abbondantemente instabile e caotico.

Game of Thrones (Il trono di spade).
Una epopea fluviale come l’ Iliade o l’ Orlando Furioso racconta la storia della lotta per il trono, ambientata in un mondo immaginario, tra diverse nobili famiglie attraverso le avventure di molti personaggi. La lotta per conquistare il Trono di Spade dei Sette Regni porta le più potenti famiglie a scontrarsi o allearsi tra loro in complessi giochi di potere, che coinvolgono anche l'ultima discendente della dinastia regnante deposta: intanto il mondo intero viene minacciato dall'arrivo di un inverno che risveglia creature leggendarie dimenticate e fa emergere forze oscure e magiche.
Ogni famiglia è composta non solo da membri legati da stretta parentela, ma anche da parenti, amici, vassalli, servitori, conoscenti e alleati più o meno infidi: ognuna ha i suoi segreti, le sue rivalità, i suoi contrasti interni. In realtà assomiglia più a un clan, a una parrocchia, a un gruppo politico o economico, a una associazione mafiosa che a una famiglia tradizionale. E’ il potere l’ obiettivo, perché dovrebbe garantire la sopravvivenza, la sicurezza, la prosperità dei membri della famiglia oltre i limiti delle generazioni: scopo comune chiunque sia il vincitore, buono o cattivo, destinato a governare con saggezza o dando sfogo alla propria follia. “Ogni nascita di un Targaryen è un lancio di dadi, dice un personaggio, può uscire un grande re o un folle”: perciò l’ unica speranza di sopravvivenza è di non essere soli, di appartenere ad un clan con il quale è richiesta la massima identificazione. Poca meraviglia che, se ci si può fidare solo del proprio sangue e della propria appartenenza, al culmine del potere sia così frequente l’ incesto: non mancano però neanche il parricidio e l’ odio tra fratelli, in un contesto così paranoico in cui solo una famiglia deve essere la vincitrice assoluta perché i membri della stessa non dovrebbero sentire come rivali da umiliare e combattere anche i propri parenti?

C’era una volta.
I personaggi delle favole, privi di memoria, sono confinati nel nostro mondo nel paese di Storybrooke da un incantesimo della Regina Cattiva, che odia Biancaneve. Le diverse stagioni raccontano la loro lotta per ritrovare l’ identità originaria e tornare nel mondo delle favole: magia e tecnologia dei nostri tempi coesistono, come il bene e il male in ognuno dei personaggi, anche i più spietati.
La molla che spinge i personaggi alle migliori e alle peggiori azioni è sempre la stessa, il bisogno di sentirsi amati e la difficoltà a sopportare gli abbandoni, le delusioni, i tradimenti. Molti sono alla ricerca di un padre che li ha abbandonati, un comportamento che spesso riguarda più generazioni; altri cercano vendetta per una perdita affettiva che hanno subito; tutti vorrebbero colmare attraverso i figli il proprio vuoto affettivo. Il sogno costantemente sfuggente di una stabilità familiare e affettiva muove il mondo, nostro e delle favole e la ricerca di amore è la condanna e la speranza dell’ umanità. Non per nulla così spesso torna il filo conduttore dei cuori da strappare, conservare, tesaurizzare, e solo come estrema risorsa distruggere stringendoli in mano fino a farne cenere.

Quali elementi in comune hanno le famiglie di questi serial?
In tutti e tre i serial il mondo è un posto pieno di pericoli, di oscurità magica e di irrazionalità. Le soluzioni che propongono per la sopravvivenza sono diverse: l’ onnipotenza adolescenziale, la paranoia che si realizza attraverso la smania di potere, la speranza di non essere soli al mondo che può indurre tutti alle migliori e peggiori azioni. La famiglia resta per tutti, perfino per i giovani di Shannara che comunque si ispirano ai valori e ricercano le eredità familiari, un punto di sicurezza, un rifugio in cui, in modo più o meno distorto, cercare rifugio e sicurezza. E’ da notare che i singoli personaggi che cercano di portare una razionalità e un ordine in questi serial fanno una brutta fine (Ned Stark…) o si coprono di ridicolo (lo psicologo buono ma noioso e banalizzante in cui è trasformato a Storyville il Grllo parlante) o muoiono presto in versione Shannara.
Il mondo di oggi forse ci sta riportando a cercare nella famiglia una stabilità che sentiamo costantemente insidiata, e ciò induce una rivalutazione nel fantasy di temi antichi, sistematizzati nelle opere di Shakespeare. I serial Fantasy come derivati del Riccardo III° e delle tragedie storiche che non per niente descrivevano gli eventi della guerra delle Due Rose, a cui per sua ammissione l’ autore del trono di spade si è ispirato? Re Lear sulla ricerca della garanzia di amore tra padre e figli antesignano di C’ era una volta? Shannara come sviluppo di un superomismo nietzschano vicino all’ adolescenza?
Forse sono questi i miti antichi che scorrono nei fantasy, meno apparenti invece nei serial collocati nell’ attualità che si sforzano di riprodurla e anticiparne aspetti: non sottovalutiamone il significato e la potenza!







domenica 19 aprile 2020

Il passaggio all’online: una svolta importante per la psicoterapia. Ecco i primi risultati della nostra indagine sul cambio di setting terapeutico a un mese e mezzo dal lockdown

a cura di G. Manfrida, E. Eisenberg e V. Albertini



Come è stato per gli psicoterapeuti cambiare improvvisamente modalità di organizzare e gestire le sedute, nel passaggio da incontri faccia a faccia a modalità online? Come hanno proposto questo cambiamento, quali sono state le reazioni, che differenze hanno trovato, come pensano di fare in futuro? Qui trovate il link ai primi risultati della nostra indagine, svolta da Valentina Albertini, Gianmarco Manfrida ed Erica Eisenberg del Centro studi e Applicazione della Psicologia Relazionale di Prato.

Per leggere la ricerca clicca sul link:


https://www.slideshare.net/CSAPRPrato/il-passaggio-allonline-una-svolta-importante-per-la-psicoterapia-ecco-i-primi-risultati-della-nostra-indagine-sul-cambio-di-setting-terapeutico-a-un-mese-e-mezzo-dal-lockdown

mercoledì 15 aprile 2020

Cosa ci serve per affrontare questa emergenza?

a cura di Gagliardi Simona, Psicologa, Psicoterapeuta 



Una domande sembra circolare più o meno esplicitamente in queste settimane in pagine e siti psicologici: cosa serve per offrire sostegno ai cittadini ed ai sanitari che, come noi, stanno vivendo e gestendo questa sconvolgente emergenza sanitaria?

E’ molto importante riconoscere le competenze e le esperienze specifiche di chi fra noi si è formato in psicologia dell’emergenza, psicotraumatologia e/o nella psicoterapia EMDR, discipline appassionanti e valide. Ci sono indubbiamente contributi preziosissimi e focus specifici su come intervenire in contesti di disastri naturali, incidenti, aggressioni fisiche, violenze sessuali ecc. In questi contesti, come sempre, anche la ‘sola’ comunicazione della notizia di morte necessita tutte le attenzioni e la formazione specifica per il personale socio sanitario coinvolto, a tutela di chi sta vivendo il lutto ed a tutela dello stesso operatore.

In questo periodo, ad esempio, è sicuramente molto importante parlare e soffermarsi sugli effetti della traumatizzazione vicaria, che può essere anche nostra, presente anche nel DSM-V, valutando l’alto impatto traumatico che il personale sanitario sta vivendo in questi giorni: turni continui, che richiedono di rimanere comunque sempre in una posizione di attivazione ed azione ma in un contesto dove mancano protocolli noti, procedure e dispositivi di protezione. Un momento dove la vicinanza ed il contatto stesso con il paziente, fonte di conforto e sicurezza reciproca-pensando anche all’importanza della semeiotica- sono un rischio. Un momento dove il personale non si confronta neppure con i familiari dei pazienti se non telefonicamente. E dove possiamo solo immaginare cosa si sta vivendo dall’altra parte della cornetta.
La domanda iniziale è forse relativa; in questo momento credo sia fondamentale più che mai la nostra umanità, la nostra capacità di sentire ed entrare in contatto con l’altro. Poi certamente sono necessarie e molto importanti la nostra formazione, la nostra esperienza clinica ed il nostro continuo e costante aggiornamento professionale. Contano la conoscenza dell’impatto del trauma (dal greco ferita) e dello stress sulla salute e sulla psiche, con riferimento alle esperienze traumatiche (trauma con la T maiuscola) in cui il soggetto ha provato assistito o si è trovato di fronte ad un evento potenzialmente mortale, con pericolo di morte o di gravi ferite, o ad una minaccia alla propria integrità fisica o a quella di altri in cui il soggetto può sperimentare emozioni di paura, vulnerabilità ed orrore e rispondere con reazioni di attacco, fuga, paralisi e resa; ma vanno considerati anche gli eventi relazionali (trauma con la t minuscola), che non sono una minaccia all'integrità fisica ma alle rappresentazioni del sé; ed ancora i nostri modelli teorici, il patrimonio di conoscenze di neuroscienze, l’attenzione agli effetti delle esperienze infantili sfavorevoli.
Nello specifico rispetto al trauma ed alle esperienze traumatiche l’evidenza che conosciamo in modo chiaro, con basi scientifiche, è che non c’è stata elaborazione. Le informazioni collegate all'esperienza sono rimaste in una stasi neurobiologica, in una rete neurale con le stesse emozioni, convinzioni, sensazioni fisiche del momento dell’evento. Semplificando sono rimaste bloccate nella parte del cervello più antica e non sono arrivate alla neocorteccia. Non è stata usata la parola; manca la dimensione narrativa dell’esperienza. C’è quindi una storia che non è stata raccontata e non può svilupparsi su nuove trame.
Quello che sappiamo e che ci guida da sempre è che “la relazione ammala, la relazione cura”. È questo il nostro mestiere.
Forse nei nostri studi ci aspetteranno da affrontare, dopo questa emergenza, molti più lutti complessi, crisi depressive, relazionali e familiari, sintomatologie ansiose e post traumatiche ecc. Come sempre cercheremo di offrire, con con-tatto, calore, calma e competenza, uno spazio per esprimere la paura ed il dolore, connettendo emozioni, pensieri, sensazioni, scoprendo discrepanze, portando alla luce segreti e non detti, alla ricerca di risorse per iniziare a raccontare nuove storie. Con quello che sappiamo, che possiamo e che abbiamo a disposizione da sempre: la parola e la relazione terapeutica.



Riferimenti

Cancrini L. (2013).La cura delle infanzie infelici. Milano: Raffaello Cortina Editore
Di Caro S. (2017). La psicoterapia del distacco. Roma: Alpes
Manfrida G. (2014) La narrazione psicoterapeutica. Invenzione, persuasione e tecniche retoriche in terapia relazionale. Milano: Franco Angeli
Van Der Kolk B. (2015). Il corpo accusa il Colpo. Milano: Raffaello Cortina Editore https://emdr.i

martedì 7 aprile 2020

Distacco, perdita delle relazioni e lutto durante l'emergenza coronavirus



a cura di Marzia Donati, Psicologa, Psicoterapeuta



In un periodo in cui il tema della morte è prepotentemente quotidiano, il webinar della dottoressa Sonia Di Caro, organizzato dall’Ordine degli Psicologi della Toscana, si è reso ancor più attuale del solito e ha arricchito la tematica del distacco di sfaccettature preziose dal punto di vista clinico.
Come psicoterapeuti siamo da sempre chiamati a supportare le persone nell’elaborazione dei loro lutti, sia quelli derivanti dalla morte fisica di persone significative, sia quelli figurati per prospettive interrotte, investimenti falliti e sogni infranti.
La dottoressa Di Caro, con chiarezza e professionalità, ha iniziato il suo intervento con la descrizione degli aspetti e dei contributi teorici, delle differenze tra assenza e mancanza, tra lutto e cordoglio, delle fasi dell’elaborazione del lutto, dell’importanza dei rituali e delle cerimonie dell’addio, per poi definire il “lutto patologico” nelle sue varie forme. Ha quindi illustrato alcune delle tecniche che si possono utilizzare in terapia per accompagnare i pazienti nel percorso di elaborazione, strumenti descritti anche nel suo toccante (e illuminante) libro “La psicoterapia del distacco”.
Esempi clinici e piccoli frammenti dell’esperienza personale hanno arricchito l’intervento della Direttrice del CTR di Catania, riportando i partecipanti alla dimensione umana della perdita. Difficile non emozionarsi e non far correre la mente a un nostro lutto, a quel dolore e ai cambiamenti successivi, a una mancanza o un’assenza già vissute, alla paura per la mancanza futura di qualcuno che ci è caro.
Ed è lì, come ha detto all’inizio del webinar la dottoressa Maria Antonietta Gulino, Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Toscana, citando Vittorio Lingiardi, che il nostro lavoro di terapeuti si intreccia con la vita privata di ciascuno di noi: “Chi sceglie una professione di aiuto spesso lo fa perché conosce il dolore. Diventerà un guaritore ferito. Quindi chi cura va curato, chi accudisce va accudito. E questo sarà il compito di altri guaritori feriti che sono gli psicologi e gli psicoterapeuti.
La condivisione del dolore di cui ha parlato la Di Caro è (e sarà) la condizione necessaria per una sana elaborazione del lutto: le persone, adesso, muoiono sole e chi resta affronta il dolore della perdita altrettanto solo, senza poter ricevere il sostegno o l’abbraccio dei familiari e senza poter dare un ultimo saluto, mancano i consueti rituali che permettono l’esame di realtà e la vicinanza della comunità. Oggi, più che mai, non ci si può preparare al commiato. La traumaticità della morte al tempo del Coronavirus non sarà facile da affrontare. “Date parole al dolore”, insegna Cancrini, e la dottoressa Di Caro aggiunge “toccate con mano quel dolore e trovate un modo per farlo con-dividere, in modo che diventi sopportabile”, tenendo presente che “quando si affronta il lutto in terapia serve una mente fredda e un cuore caldo”. Serve lucidità, capacità di osservazione e di auto-contenimento, per non farsi travolgere, un’analisi accurata della situazione concreta, ma anche una partecipazione vera, profonda e rispettosa dell’altro. Ci ricorda, nuovamente, che le tecniche aiutano, ma la relazione cura.
Alla fine di questa emergenza dovremo essere ben attenti a cercare un possibile lutto fra le pieghe dei sintomi che porteranno le persone in terapia. La dottoressa Di Caro ci ha invitato ad andare oltre le “realtà banali e dominanti” di cui Manfrida parla, e a non sottovalutare il peso delle perdite (avvenute in questi mesi) nella vita dei pazienti, forse anche tra un bel po’ di tempo, per accompagnarli in un’elaborazione che permetta loro di tornare alla vita.
Ci serviranno una mente fredda, un cuore caldo e tanta umanità. Come sempre, più di sempre.


giovedì 2 aprile 2020

La (sostenibile?) stanchezza dell'online

a cura di Valentina Albertini, Psicologa, Psicoterapeuta, didatta CSAPR


Il passaggio al setting virtuale per l'emergenza Coronavirus 


Il momento presente ha obbligato tutti (o quasi) gli psicoterapeuti a passare a modalità online di lavoro con i propri pazienti. Più o meno ciascuno ha sperimentato il cambiamento: sia i colleghi già pratici, che quelli un tempo scettici, i quali per corrispondere ai vari decreti ministeriali si sono visti costretti ad informarsi velocemente e a tecnologizzarsi con rapidità.

Rispetto a questa comprensibile necessità abbiamo ricevuto molte domande e chiarimenti da colleghi neofiti del virtuale.  

In queste ultime settimane, si osserva infatti nel web un pullulare di consigli, la maggior parte dei quali incentrati su dinamiche tecnologiche o burocratiche, che sono ovviamente importanti, ma non bastano per garantire un buon setting online. Ovviamente mantenere intatte tutte le regole del Codice deontologico, nonché tutte le accortezze riferite alla normativa della privacy è essenziale, così come garantire l'utilizzo di strumenti online che utilizzino una crittografia end-to-end e possano garantire una certa sicurezza nelle comunicazioni (Skype, videochiamate con Whatsapp, google duo ecc...). Ma bastano questi elementi per garantire che online si faccia una terapia? sarebbe come se in un incontro faccia a faccia rispettate le regole di legge e le indicazioni dell’Ordine la terapia fosse già garantita. 
E invece, ancora una volta, il nostro mestiere si scopre speciale, e sente la necessità di adattare alla propria specialità uno strumento di comunicazione quotidiano, che in questo momento viene utilizzato da bambini e anziani, nord e sud, mattina e sera. 

Noi al Csapr di Prato studiamo da anni la modalità online di comunicare e fare psicoterapia, e ci siamo convinti nel tempo che il passaggio fra setting diversi non sia una questione semplicemente tecnica, ma afferisca a dinamiche cliniche alle quali bisogna fare molta attenzione. 

Vista quindi la necessità di riflettere su aspetti di pratica clinica, ci preme dare la nostra opinione sottolineando, seppure con semplicità, i primi punti essenziali da tenere conto se ci si approccia a questa nuova modalità. 

In fondo a questo elenco viene indicata una bibliografia di riferimento, che suggeriamo di approfondire. 

Brevi indicazioni cliniche


1. Prima di tutto vale la pena sottolineare di nuovo che la differenza fra terapia online e in presenza è principalmente clinica. Non basta imparare a conoscere una piattaforma o avere i moduli privacy adatti. E' necessario valutare le proprie competenze e, perché no, anche le proprie insicurezze. La letteratura condivide infatti l'idea che la terapia online non sia un setting più facile, ma sia in realtà una situazione relazionale più complicata da gestire. Bene quindi proporsi come specialista solo quando si sia acquisita abbastanza confidenza con lo strumento.

2. È importante valutare bene l'opportunità o meno di attivare un percorso online. Questo tipo di percorso può non essere adatto a tutti i pazienti, e la sua applicabilità va valutata caso per caso. Quasi tutti i colleghi hanno sperimentato la difficoltà di proporre un cambiamento da sedute in presenza a sedute online per alcuni pazienti. 

La motivazione primaria per rinunciare alla terapia in questo momento è sicuramente la difficoltà a ritagliarsi spazi di privacy sufficiente all'interno delle mura domestiche. Ciò non toglie che alcuni pazienti, probabilmente meno motivati o inseriti in percorsi terapeutici più complicati, possano cogliere questa occasione per interrompere le sedute. Non scoraggiamoci: sta succedendo a tutti. 

3. La terapia online non è una terapia di "serie B". Per questo, anche il pagamento deve essere uguale a quanto era in presenza, per non squalificare il setting e il nostro lavoro. Quella del pagamento è infatti una delle prime domande che chi si approccia all'online pone, quasi a chiedersi se il proprio lavoro avrà lo stesso valore una volta traslato nell'etere. La risposta è sì: il vostro tempo e la vostra preparazione non cambiano. Anzi, come vederemo, ci saranno maggiori difficoltà piuttosto che facilitazioni nel passaggio all'online.

4. La terapia online non è uno strumento più "facile". Attenzione quindi a suggerirà a giovani terapeuti come modalità semplice ed economica di avvio alla professione. I colleghi che utilizzano questa modalità, condividono la necessità di conoscere bene la gestione del setting in presenza prima di passare alla modalità online. Ci possono essere infatti molte più cose da osservare e differenti dinamiche relazionali da gestire in un setting online, nel quale senza volerlo la nostra "invasione" nello spazio privato del paziente è maggiore, e ci sono alcuni elementi tipo la parte emotiva, certe sfumature della voce o del comportamento non verbale, che diventano di più difficile accesso.

5.I pazienti si trovano in un luogo per loro familiare. Può essere quindi necessario stabilire alcune regole. Ad esempio, trovarsi in una stanza chiusa senza che nessuno possa disturbare, non stare sdraiati sul letto o in pigiama, non magiare o fumare durante la seduta, ecc.. Qualsiasi regola che possa far stare comodi entrambi andrà bene, purché venga esplicitata e, se necessario, se ne parli insieme in seduta. 

Servono delle regole per far sì che tanta familiarità con l'ambiente non condizioni troppo il lavoro terapeutico. Se la maggior parte dei colleghi non ha problemi a vedere il paziente che fuma o prende un caffè, ci sono alcuni elementi che vanno mantenuti. La maggior parte dei colleghi concorda per esempio nel richiedere un abbigliamento consono (no in pigiama, per esempio), e una situazione comoda ma non esagerata (ad esempio, no sdraiati sul letto). Queste sono tutte variabili che avranno bisogno di essere concordate con il paziente prima del passaggio ad un setting online.

6. Il setting online non è una semplice trasposizione di quello in presenza. Ci sono variabili nuove da osservare, a partire dal fatto che c'è una grande intrusione nella quotidianità del paziente. Ci saranno molte variabili da valutare, ad esempio il fatto che il video porterà la nostra faccia così vicina a quella del paziente come mai prima, oppure che potrebbero esserci delle particolari "intrusioni" o sorprese (animali domestici che partecipano alla seduta, familiari che si affacciano e vengono presentati al terapeuta, tour dell'appartamento ecc.). Ogni cosa, ogni particolarità potrà venire utilizzata in terapia. 

7. La terapia online è più stancante di quella in presenza. Questa è una caratteristica che tutti i terapeuti che si interfacciano al virtuale sperimentano. Probabilmente sarà difficile mantenere lo stesso numero di pazienti che siamo soliti vedere in presenza. Si consiglia quindi di aumentare il numero di pause fra un paziente e l'altro, e di evitare il sovraccarico di lavoro, che sarà più difficile da gestire. Probabilmente questa stanchezza si rifà a quanto scritto nei punti precedenti, cioè le differenze di setting e di ambiente che diventano dirimenti al momento del lavoro online.

8. L'online può essere un buono strumento da utilizzare anche per la terapia di coppia. Ovviamente tutti gli aspetti di fisicità saranno ridotti, quindi strumenti come le sculture, o alcuni protocolli, non saranno applicabili. Ciò nonostante, soprattutto in questa epoca emergenziale, può essere un valido aiuto non interrompere il lavoro di coppia e continuarlo in modalità online.

9. Esistono buone esperienze di setting familiare online. Prima dell'emergenza, l'online era stato utilizzato da molti per convocare in seduta membri che non vivevano vicini.

In questa situazione emergenziale, anche le sedute familiari possono svolgersi online, tenendo conto di alcuni accorgimenti, tipo l'importanza di stabilire chiare regole per parlare, per evitare che la seduta si trasformi in un caos. 

Sembrano esistere limitazioni particolari solo per coloro che svolgono sedute individuali con bambini. La fisicità limitata e l'impossibilità di fare qualsiasi attività motoria rendono questo tipo di sedute pressoché impossibili da svolgersi online.

10. Il setting del terapeuta, laddove possibile, sarebbe meglio restasse lo stesso delle sedute in presenza. Se non è possibile recarsi in studio, sarebbe importante creare un luogo più neutro possibile. Teniamo comunque presente che la self disclosure, lavorando dalla propria abitazione, sarà comunque inevitabile. È importante gestirla il più possibile, evitando per esempio di essere disturbati mentre si è in seduta, o di mettere la Webcam davanti alle fotografie della propria famiglia rendendo accessibili troppi contenuti personali ai pazienti. 



Nonostante questo elenco possa sembrare semplice, tutti i colleghi che da anni studiano le modalità di lavoro online concordano sul fatto che questa è una modalità clinica molto difficile. 

Invitiamo quindi chiunque fosse interessato ad approfondire questo tema complesso, può visionare la seguente indicativa bibliografia.


Breve bibliografia di riferimento


AA.VV. (2017). Stato dell’arte della ricerca scientifica sulle prestazioni psicologiche 
OPL-2017-definitivo-300817.pdf.

Borcsa M., Pomini V. (2018). Couple and Family Therapy in the Digital Era, in 
Lebow J.L., Chambers A.L., Breunlin D.C. (a cura di) (2018). Encyclopedia of 
Couple and Family Therapy. New York: Springer.

Giuliani M. (2012). Ipotesi sul Sé: dalla psicoanalisi al virtuale. In Barbetta P., 

Casadio L., Giuliani M. (a cura di). Margini. Tra sistemica e psicoanalisi. Torino: Antigone. 

Giuliani M. (2015). Il primo terremoto di internet. Trani: Durango Edizioni. 

Giuliani M. (2019). La terapia online, in Barbetta P., Telfener U. (a cura di) (2019).  Complessità e psicoterapia. L’eredità di Boscolo e Cecchin. Milano: Raffello Cortina.

Manfrida G. (2009). Gli SMS in psicoterapia. Torino: Antigone. 


Manfrida G., Albertini, V. (2014). “Una professione per niente software. 
Considerazioni sulla pratica relazionale attraverso nuovi canali di comunicazione”. 
Psicobiettivo, 3: pp. 15-32. DOI: 10.3280/PSOB2014-003002. 


Manfrida G., Albertini V., Eisenberg E. (2017a). “Connected: recommendations 
and techniques in order to employ Internet tools for the enhancement of online
therapeutic relationships. Experiences from Italy”. Contemporary Family 
Therapy, 39: pp. 314-328. DOI: 10.10007/s10591-017-9439-5. 


Manfrida G., Albertini V., Eisenberg E. (2017b). “Connessi: raccomandazioni e 
tecniche per promuovere la relazione terapeutica online con strumenti internet. Esperienze italiane”. Ecologia della Mente, 2: pp. 200-225. 


Manfrida G., Albertini V., Eisenberg E. (2019). “Psychotherapy and Technology: 
Relational Strategies and Techniques for Online Therapeutic Activity”. 
In Linares J.L., Pereira R. (a cura di) (2019). Clinical Interventions in 
Systemic Couple and Family Therapy, Springer Nature, Switzerland. DOI: 
10.1007/978-3-319-78521-9. 

Manfrida G., Eisenberg E. (2007). “Scripta… volant! Uso e utilità dei messaggi SMS in psicoterapia”. Terapia Familiare, 85: pp. 59-82. DOI: 10.1400/94241.


Strumia F. (2014). “Note sulla psicoterapia online”. Psicobiettivo, 34, 3: pp. 51-65. 
DOI: 10.3280/ PSOB-2014-003004.

Vallario L. (2012). “SMS e terapia: le relazioni pericolose”. Ecologia della mente, 
2: pp. 240-252.

Wallace P. (2016). The psychology of the internet, Cambridge, U.K.: Cambridge 

University Press; trad. it. (2017). La psicologia di internet. Milano: Raffaello 
Cortina.