martedì 9 giugno 2020

"Cambiare l'acqua ai fiori" di Valérie Perrin


a cura della didatta Barbara Bertelli


Non sei più dove eri,
ma sei ovunque sono io.


Ho letto il romanzo di Valérie Perrin in tempi "non sospetti", mesi prima dell'emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 in Europa. È forse per questo che ho potuto apprezzarne il contenuto (l'universale esperienza umana della perdita), senza il soffocante condizionamento provocato dalla pandemia, che ha stravolto persino la distinzione tra eventi normativi e paranormativi, sfumandone i confini.
Cambiare l'acqua ai fiori è un romanzo sul distacco a. c. (avanti coronavirus), un romanzo che colpisce il lettore seguendo una traiettoria inversa rispetto a quella virale: dall'unicità del vissuto individuale alla condivisione di un'esperienza collettiva.
Violette Touissaint (Touissaint in francese significa "Ognissanti") è la guardiana di un piccolo cimitero della Borgogna. È una donna che vive ascoltando gli altri, probabilmente per non ascoltare se stessa, che cela un segreto che il lettore scoprirà solamente dopo la comparsa di un poliziotto marsigliese arrivato per conoscere l'identità dell'uomo accanto a cui la madre ha chiesto di essere sepolta. Da quel momento il libro si tinge dei colori dell'arcobaleno (#andràtuttobene?): dal nero al rosa, passando per il giallo, ricalcando fedelmente il dipanarsi della vita, che, per sua natura, prevede e comprende la morte.
Ma andiamo per gradi: Violette è una donna pratica e, allo stesso tempo, dotata di grande sensibilità, "sospesa" in un presente stagnante: le sue giornate si susseguono reggendosi su un equilibrio fatto di distacco emotivo e operosità metodica. Il lettore inizialmente non conosce gli eventi che hanno concorso nel farla diventare ciò che è, ma ne registra la sofferenza e scorge, dietro all'efficienza manifesta, il tentativo di sopravvivere ad una storia di dolore e difficoltà.
La storia di Violette è una storia complicata da un lutto patologico. Volendo ricostruire l'intreccio del romanzo in ordine cronologico (perdendo così l'80% del fascino del libro) si assiste all'evolversi di un destino che pare ineluttabile. La protagonista è stata abbandonata in fasce da una madre che non ha mai conosciuto. "Ho cominciato malissimo (...). Mia madre non mi è mai mancata, tranne quando avevo la febbre. Quando stavo bene crescevo, venivo su dritta come se l'assenza di genitori mi avesse applicato un tutore lungo la spina dorsale. Mi tengo dritta, è una mia peculiarità. Non mi sono mai piegata, neanche nei periodi di maggior dolore. Spesso mi chiedono se abbia fatto danza classica. Rispondo di no, che è stata la quotidianità a darmi una disciplina, a farmi allenare ogni giorno alla sbarra e sulle punte."
Voilà la scissione! Piccola nota di colore: persino il guardaroba di Violette è doppio! Ne ha uno privato, colorato che indossa nelle sue "estati serali", e uno pubblico, grigio ed impersonale, che veste nei quotidiani inverni. Forse V. Perrin avrebbe potuto pensare ad un nome composto per la protagonista del suo romanzo: Violette Hiverine! Già Roberto Vecchioni con la sua Viola d'inverno (s-fortunata coincidenza!) aveva saputo rendere la morte un accadimento naturale, semplice e, nello stesso tempo, solenne.
E dopo un'infanzia di abbandoni, un'infanzia "non curata"... Naturalmente non poteva mancare un incastro di coppia da manuale: lei, l'ultima degli ultimi, e lui, il belloccio/inconsistente di turno alle prese con uno svincolo ribelle/rabbioso. Il tutto inserito in un sistema di supporto sociale ed economico del tutto carente. È proprio il caso di dirlo: cronaca di una morte annunciata; dove purtroppo la morte è reale, innaturale ed improvvisa, anche se non direttamente collegata alle difficoltà psicologiche dei due personaggi. Quali possono essere gli effetti di una perdita su di loro? Ovviamente disastrosi. Racconteranno (a se stessi e al piccolo mondo che frequentano) storie banali e superficiali, senza riconoscere né ammettere che è il lutto, un lutto patologico, a sancire la fine della loro fragile storia. E la distanza tra loro diventerà incolmabile: due copioni diversi per due sorti opposte.
Violette ha i "limiti" delle eroine dei romanzi d'amore (dell'Amore in tutte le sue forme), all'interno dei quali occasioni fantastiche e profetiche sostituiscono il duro lavoro psicoterapeutico, meno romantico ma sicuramente più efficace. Sarà bene però non svelare altro!
Violette ha coraggio: un coraggio intimo che sprona a far leva principalmente su se stessi, un coraggio che impone di far quadrare la "contabilità familiare" (I. Boszormenyi-Nagy, 1973) senza affidarsi o pretendere risarcimenti esterni, il coraggio di guardare in faccia la morte, anche la più ingiusta ed inaccettabile. La protagonista è addirittura in grado di autoprescriversi un "compito", una "cerimonia di addio" (S. Di Caro, 2017), che rappresenta sia una chiusura sia una ripartenza.
Cambiare l'acqua ai fiori è un romanzo che colpisce per la sua semplicità (non banalità), per l'assenza di pretese intellettualoidi, che non impediscono all'autrice di "fotografare" la Vita, quella vera, autentica, che sopravvive ad ogni dolore.
Per questo motivo... consigliatissimo anche nel d.c. (dopo coronavirus)!

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