a cura della didatta Barbara Bertelli
Non sei più dove eri,
ma
sei ovunque sono io.
Ho
letto il romanzo di Valérie
Perrin in tempi "non sospetti", mesi prima dell'emergenza
sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 in Europa. È forse per
questo che ho potuto apprezzarne il contenuto (l'universale
esperienza umana della perdita), senza il soffocante condizionamento
provocato dalla pandemia, che ha stravolto persino la distinzione tra
eventi normativi e paranormativi, sfumandone i confini.
Cambiare
l'acqua ai fiori è
un romanzo sul distacco a.
c. (avanti
coronavirus), un romanzo che colpisce il lettore seguendo una
traiettoria inversa rispetto a quella virale: dall'unicità del
vissuto individuale alla condivisione di un'esperienza collettiva.
Violette
Touissaint (Touissaint
in francese significa "Ognissanti") è la guardiana di un
piccolo cimitero della Borgogna. È una donna che vive ascoltando gli
altri, probabilmente per non ascoltare se stessa, che cela un segreto
che il lettore scoprirà solamente dopo la comparsa di un poliziotto
marsigliese arrivato per conoscere l'identità dell'uomo accanto a
cui la madre ha chiesto di essere sepolta. Da quel momento il libro
si tinge dei colori dell'arcobaleno (#andràtuttobene?): dal nero al
rosa, passando per il giallo, ricalcando fedelmente il dipanarsi
della vita, che, per sua natura, prevede e comprende la morte.
Ma
andiamo per gradi: Violette è una donna pratica e, allo stesso
tempo, dotata di grande sensibilità, "sospesa" in un
presente stagnante: le sue giornate si susseguono reggendosi su un
equilibrio fatto di distacco emotivo e operosità metodica. Il
lettore inizialmente non conosce gli eventi che hanno concorso nel
farla diventare ciò che è, ma ne registra la sofferenza e scorge,
dietro all'efficienza manifesta, il tentativo di sopravvivere ad una
storia di dolore e difficoltà.
La
storia di Violette è una storia complicata da un lutto patologico.
Volendo ricostruire l'intreccio del romanzo in ordine cronologico
(perdendo così l'80% del fascino del libro) si assiste all'evolversi
di un destino che pare ineluttabile. La protagonista è stata
abbandonata in fasce da una madre che non ha mai conosciuto. "Ho
cominciato malissimo (...). Mia madre non mi è mai mancata, tranne
quando avevo la febbre. Quando stavo bene crescevo, venivo su dritta
come se l'assenza di genitori mi avesse applicato un tutore lungo la
spina dorsale. Mi tengo dritta, è una mia peculiarità. Non mi sono
mai piegata, neanche nei periodi di maggior dolore. Spesso mi
chiedono se abbia fatto danza classica. Rispondo di no, che è stata
la quotidianità a darmi una disciplina, a farmi allenare ogni giorno
alla sbarra e sulle punte."
Voilà
la scissione! Piccola nota di colore: persino il guardaroba di
Violette è doppio! Ne ha uno privato, colorato che indossa nelle sue
"estati serali", e uno pubblico, grigio ed impersonale, che
veste nei quotidiani inverni. Forse V. Perrin avrebbe potuto pensare
ad un nome composto per la protagonista del suo romanzo: Violette
Hiverine! Già Roberto Vecchioni con la sua Viola
d'inverno
(s-fortunata coincidenza!) aveva saputo rendere la morte un
accadimento naturale, semplice e, nello stesso tempo, solenne.
E
dopo un'infanzia di abbandoni, un'infanzia "non curata"...
Naturalmente non poteva mancare un incastro di coppia da manuale:
lei, l'ultima degli ultimi, e lui, il belloccio/inconsistente di
turno alle prese con uno svincolo ribelle/rabbioso. Il tutto inserito
in un sistema di supporto sociale ed economico del tutto carente. È
proprio il caso di dirlo: cronaca di una morte annunciata; dove
purtroppo la morte è reale, innaturale ed improvvisa, anche se non
direttamente collegata alle difficoltà psicologiche dei due
personaggi. Quali possono essere gli effetti di una perdita su di
loro? Ovviamente disastrosi. Racconteranno (a se stessi e al piccolo
mondo che frequentano) storie banali e superficiali, senza
riconoscere né ammettere che è il lutto, un lutto patologico, a
sancire la fine della loro fragile storia. E la distanza tra loro
diventerà incolmabile: due copioni diversi per due sorti opposte.
Violette
ha i "limiti" delle eroine dei romanzi d'amore (dell'Amore
in tutte le sue forme), all'interno dei quali occasioni fantastiche e
profetiche sostituiscono il duro lavoro psicoterapeutico, meno
romantico ma sicuramente più efficace. Sarà bene però non svelare
altro!
Violette
ha coraggio: un coraggio intimo che sprona a far leva principalmente
su se stessi, un coraggio che impone di far quadrare la "contabilità
familiare" (I. Boszormenyi-Nagy, 1973) senza affidarsi o
pretendere risarcimenti esterni, il coraggio di guardare in faccia la
morte, anche la più ingiusta ed inaccettabile. La protagonista è
addirittura in grado di autoprescriversi un "compito", una
"cerimonia di addio" (S. Di Caro, 2017), che rappresenta
sia una chiusura sia una ripartenza.
Cambiare
l'acqua ai fiori
è un romanzo che colpisce per la sua semplicità (non banalità),
per l'assenza di pretese intellettualoidi, che non impediscono
all'autrice di "fotografare" la Vita, quella vera,
autentica, che sopravvive ad ogni dolore.
Per
questo motivo... consigliatissimo anche nel d.c.
(dopo coronavirus)!