di Daniela Tortorelli, psicologa psicoterapeuta.
INTRODUZIONE
Viene
presentata una breve storia, sotto forma di narrazione diretta,
estrapolata dai racconti e dai ricordi di una paziente adulta (35
anni) in terapia individuale. La storia narra di una fase della vita
in cui la paziente ha sofferto di disturbo ossessivo compulsivo
all’età di 9 anni.
Come
spesso accade nel trattamento dei bambini con disturbi di area
nevrotica, un sintomo importante può svanire con la rapidità con
cui è arrivato, se muta il contesto relazionale in cui il sintomo si
manifesta.
La
paziente narra del rapporto con il padre che cerca di compiacere e
con la madre alla quale si affida con più facilità. Quest’ultima,
è il perno della comunicazione familiare che media tra il marito e
la figlia.
La
rilettura finale della paziente relativa ai motivi della sua
guarigione è estremamente importante, in quanto diventa un elemento
che accresce la sua autostima. La bambina di allora pensò di aver
risolto da sola il sintomo; l’adulta di oggi lo conferma, con
l’aggiunta (sana) di qualche riflessione. Quando il paziente si
scopre “capace di” si configura un elemento estremamente
importante nella risoluzione delle psicoterapie.
STORIA
Avevo
circa 9 anni: me lo ricordo, perché ci eravamo trasferiti da poco
nella casa nuova.
I
miei genitori erano stressati e presi da mille incombenze, mentre io,
che non avevo più amici, mi ero ritrovata sola per interi pomeriggi
a giocare nel salotto non ancora arredato.
Mi
ero fatta regalare una macchina da scrivere (forse oggi i ragazzi
neppure sanno cosa sia!) e per me era qualcosa di magnifico. Una
domenica pomeriggio venne a trovarci Laura, mia cugina, che rimase
folgorata dalla mia macchina.
Ovviamente
mi chiese di provarla.
Ovviamente
glielo concessi, seppur a malincuore: mi alzai dalla sedia e le
lasciai il mio posto davanti alla mia macchina. Mia
cugina aveva 8 anni più di me e i miei la ritenevano una ragazzina
viziata.
Ricordo
ancora il disagio nascere dentro di me una volta che, rimasta di
nuovo sola con il mio “gioco”, iniziai a toccare tutti i tasti
tre volte. Era sorta in me la paura di diventare come Laura, di
“identificarmi in lei”, come dicevo allora. Se avessi
toccato quei tasti dopo di lei sarei diventata come lei, ritoccandoli
avrei annullato l’effetto (essendo il secondo tocco, quello
precedente sarebbe stato il mio), con il terzo tocco sarei rientrata
completamente in me…
Il
rituale iniziò così e piano, piano, si estese in altri contesti. Mi
ricordo quando ero a scuola: capitava che qualche compagno usasse i
miei pennarelli o si sedesse nella mia sedia, ecc. e io, con
noncuranza, cercando di non farmi vedere, toccavo tutto tre volte…a
meno che non ci fosse passato prima qualcuno che apprezzavo molto. In
quel caso accettavo volentieri il “contagio”.
I
miei genitori si accorsero molto presto di questi rituali e
iniziarono a chiedermi cosa stesse accadendo. In realtà se ne
accorse mia madre, che informò mio padre (ma non ricordo di
averne mai parlato a lui…lui era sempre distante,
inarrivabile, esigente…). Mia madre era molto preoccupata e, in
men che non si dica, mi ritrovai in una stanza asettica (sono
proprio sicura che fosse in un ospedale), seduta, con accanto mia
mamma e di fronte uno strizzacervelli, con addosso un camice bianco
(sarà un ricordo falsato?) che chiedeva quale fosse il
problema.
“Mia
figlia tocca tutto tre volte!”. E lui, scrutandomi da dietro la
scrivania mi chiese cosa mi preoccupasse.
In
pochi minuti decisi che quello sconosciuto era troppo invadente e non
avrebbe potuto capire. E poi, cosa avrei dovuto spiegare? Che temevo
di “identificarmi in un altro che a me non piaceva?”. Mi avrebbe
preso per pazza. Decisi allora di raccontargli qualcosa di “neutro”,
di “adatto a uno psicologo”…in fondo ero una bambina brava e
ubbidiente.
Allora,
parlai della Mary e della Baby, le mie due amichette della piscina,
bravissime a nuotare e molto più spregiudicate di me (mio padre
diceva proprio così: spregiudicate) e meno pensierose.
In
effetti, questo era stato un vero problema per me, ma a pensarci
bene, oggi, da qualche mese era svanito. In quel momento, la Mary e
la Baby erano lontane dai miei pensieri mille miglia. Lo
strizzacervelli blaterò qualcosa a mia madre, se non ricordo male
qualche consiglio da passare a papà sul modo adeguato di comportarsi
in questi casi (dottoressa, scusi, ma gli psicoterapeuti attivano
risorse, non danno consigli, giusto?).
Sulla
strada del ritorno mia madre sembrava un po’ più sollevata.
Rimanemmo in silenzio per tutto il tragitto. Pensai che questo era
veramente troppo: “pure uno strizzacervelli che fa il saputello!”.
Ero proprio stufa di stare dietro a ogni cosa così a lungo, la mia
vita era diventata un inferno. Decisi che era il momento di smettere.
E così fu: all’incrocio, davanti casa mia, guarii.
Non
so se quel dottore fosse davvero uno sciocco che avevo rigirato come
volevo (giuro che questa era stata la mia intenzione!) o
viceversa un grande terapeuta (chissà! Forse mi aveva prescritto
il sintomo e io non me lo ricordo!) o semplicemente un
professionista che cercava di fare il suo lavoro con i suoi mezzi e
un po’ di buonsenso: a me è sempre piaciuto pensare che fosse vera
la prima ipotesi.
Solo
oggi ricordo che la Mary e la Baby avevano cessato di essere così
importanti nei discorsi di mio padre e nei miei pensieri, giusto
prima del trasloco e della macchina da scrivere…
Vuoi
vedere che lo strizzacervelli era riuscito a fregarmi?
No,
non è possibile!
CONCLUSIONI
Il
racconto narrato dalla paziente ormai adulta durante una seduta
esemplifica le grandi risorse che possono essere attivate dalle
persone e in particolare dai bambini; risorse che andranno a
costruire e rinforzare il concetto ormai diffuso di resilienza. Ma
anche la storia, così come viene narrata oggi, parla di una realtà
dominante (Manfrida, 2014) piuttosto positiva del soggetto, il quale
si rappresenta capace di introspezione e sicuro di essere riuscito (e
riuscire) a padroneggiare certe situazioni.
A
ben guardare, il tema presentato si presta a riflessioni ben più
profonde sul rapporto fra la paziente e suo padre, in particolare su
un antico bisogno di essere accettata e amata da quest’ultimo;
bisogno che la bambina padroneggia con il rituale ossessivo che le dà
una parvenza di controllo e che sigilla la rabbia sottostante.
Il
sintomo ossessivo mostra infatti un nodo fatto spesso di rabbia,
controllo e senso di colpa che imprigiona chi lo manifesta e spesso
il terapeuta che tenta di scioglierlo, tanto può essere stretto.
Poter lavorare sulla realtà dominante del soggetto, sulle
possibilità alternative, sul contesto in cui il disturbo si
manifesta, sulle relazioni significative che lo nutrono e lo
sostengono è fondamentale per il suo…scioglimento.
Bibliografia
Manfrida
G., La narrazione psicoterapeutica. Invenzione, persuasione e
tecniche retoriche in terapia relazionale (II ed). Milano,
FrancoAngeli, 2014.