di Gianmarco Manfrida, psichiatra e psicoterapeuta
Per essere medico psichiatra e anche psicologo e psicoterapeuta ho
dovuto fare una LUUUUNGA strada, piena di viaggi, esami, tesi da
scrivere…ma non l’ho mai considerato un percorso inutile.
Il buon medico non prescrive farmaci per la malattia ma per il paziente: tiene conto del suo organismo nel complesso, ma anche della sua situazione di vita per decidere che farmaci prescrivere.
Il buon medico non prescrive farmaci per la malattia ma per il paziente: tiene conto del suo organismo nel complesso, ma anche della sua situazione di vita per decidere che farmaci prescrivere.
A un
ottantenne depresso con problemi cardiologici prescrive alcuni
serotoninergici piuttosto che altri, si informa se vive solo o coi
familiari, li coinvolge per assicurarsi un controllo nei primi giorni
di terapia in cui ancora gli effetti non sono stabili: se invece il
paziente vive solo concorda visite più frequenti, si informa se ci
sono parenti o altre persone coinvolgibili in un lavoro di
assistenza.
Fa cioè attenzione al contesto, modula l’intervento sulle risorse e sulle fragilità del paziente, coinvolge altri nella terapia come uno psicoterapeuta relazionale.
Fa cioè attenzione al contesto, modula l’intervento sulle risorse e sulle fragilità del paziente, coinvolge altri nella terapia come uno psicoterapeuta relazionale.
Purtroppo si è creata
una spaccatura tra psicologi psicoterapeuti e medici psichiatri,
dovuta a una deriva biologica della psichiatria negli anni tra il
1980 e il 2000, e a una sorta di posizione contestataria
“alternativa” di molti psicologi rispetto alla figura del medico,
vista come più autorevole. Oggi assistiamo ad aperture maggiori: da
parte degli psichiatri viene riconosciuta efficacia alla
psicoterapia, almeno per i modelli che maggiormente conoscono come
quello cognitivo-comportamentale, certamente non l’unico efficace
come viene proposto anche nei bugiardini dei farmaci.
Dalla parte
degli psicoterapeuti vi è la ricerca di medici che possano
prescrivere farmaci ai pazienti agli inizi di una psicoterapia o in
un momento in cui per tanti possibili motivi non basta la relazione e
la cura con la parola a ridurre la sofferenza o ritrovare
l’iniziativa. In realtà sia le parole che i farmaci si rivolgono
allo stesso bersaglio, sono capaci di modificare, le prime in modo
più selettivo e specifico, i secondi più grossolanamente, il
pensiero e le emozioni delle persone.
Se si pensa a una pera o a una
mela, saranno diversi i neuroni coinvolti e le sinapsi collegate: con
le parole posso far pensare all’una o all’altra, ma con un
tempo di azione più lungo, con i farmaci posso solo far pensare di
più o di meno ma in modo rapido ed economico. Posso sostenere
l’umore depresso di un paziente anche solo con visite frequenti
senza impiegare farmaci, ma se il farmaco lo farà in un mese
consentendoci di lavorare su altri argomenti più alla svelta e con
meno incontri, non converrà impiegare tutte e due le risorse? Il
vero problema è saper impiegare non solo correttamente, ma bene sia
le parole che i farmaci…ma questo è argomento per un altro post!
Nessun commento:
Posta un commento