martedì 27 novembre 2018

J.L. Linares e l'intelligenza terapeutica come Minimo Comun Denominatore della psicoterapia relazionale.


di Barbara Bertelli, psicologa psicoterapeuta. 



Il contributo di Juan Luis Linares alla psicoterapia relazionale è vasto ed articolato, essendo il risultato di ricche esperienze personali e professionali. Di fronte a tale complessità l'addetto ai lavori, sia egli terapeuta, formatore o allievo, si può muovere in due modi, entrambi fruttuosi e non necessariamente escludentesi.
Il primo, di tipo puntiforme, prevede che ci si soffermi sui singoli concetti teorici che costituiscono l'ossatura del pensiero di J.L. Linares: la distinzione tra coniugalità e genitorialità, il nutrimento relazionale, l'abuso psicologico e quello fisico, il neglect, intelligenza terapeutica... Questo modo di procedere rappresenta il tentativo di parcellizzare un pensiero complesso, ma fluido e coerente.
Se l'esigenza è invece quella di "sintetizzare", l'obiettivo diventa quello di individuare un Minimo Comun Denominatore tra i diversi costrutti.
La psicoterapia per J.L. Linares è familiare per scelta, per deduzione non per vocazione o fede. Secondo J.L. Linares, infatti, una buona terapia deve mantenere due referenti fondamentali: l'individuo e la società. L'individuo, in quanto soggetto sofferente e portatore di sintomi e la società, in quanto conferisce significato condiviso al singolo comportamento e rappresenta risorse ed ostacoli per la soluzione del problema. La famiglia rappresenta l'intermedio tra i due.
In quanto terapeuti, il trovare le giuste risposte, o per lo meno le migliori, è ovviamente un obiettivo di responsabilità umana oltre che professionale.
J.L. Linares è molto chiaro in proposito. La terapia per essere efficace deve produrre un cambiamento nella direzione di una riduzione del malessere dell'individuo e/o della famiglia, attraverso l'utilizzo consapevole del terapeuta stesso, impegnato, in quanto esperto, ad instaurare un "buon trattamento", amorevole in un certo senso e non basato unicamente sulla logica del controllo.
Questa consapevolezza dovrebbe coinvolgere, oltre le famiglie, anche la società e le istituzioni.
Privi di questa "sensibilità terapeutica" gli interventi rischiano di fallire, di ridursi a tentativi riabilitativi validi ma tronchi.
In termini diversi, Luigi Cancrini ha espresso un concetto assimilabile a quello di Linares parlando di "cultura psicoterapeutica relazionale", indicando con questa uno strumento – sociale anche se clinico – indispensabile per il benessere umano.
Sembra intuitivo, logico, la scoperta dell'acqua calda. Non esattamente e la storia, incredibilmente recente, lo dimostra. L'esperienza sofferta del dr. Semmelweis, medico ungherese che all'inizio del '900 ha operato nel reparto di ostetricia del famoso ospedale viennese (la cui biografia è diventata un celebre romanzo di Celine, oltre che la sua tesi di laurea in medicina) fornisce un utile spunto di riflessione. Brevemente: per i suoi contributi allo studio delle trasmissioni batteriche da contatto e alla prevenzione della febbre puerperale è noto come il "salvatore delle madri" e per le stesse intuizioni che prevedevano unicamente l'obbligo per i medici di lavarsi le mani con una soluzione di cloruro di calce dopo aver praticato un'autopsia e prima di visitare le partorienti in corsia, è morto in manicomio senza alcun riconoscimento. Il contesto in cui presentò la sua "illuminazione", non ebbe nè la capacità nè l'umiltà di riconoscerne il valore, negandolo con indifferenza ostile.
J.L. Linares direbbe che Semmelweis brillava per intelligenza terapeutica in quanto portatore di senso comune (osservava e si domandava), onestà intellettuale (Celine scrive: "non si sarebbe mai messo sul cammino della ricerca se non vi fosse stato spinto da un'ardente pietà per la rovina fisica e morale dei suoi malati"), ragionevole percorso formativo e coraggio di portare avanti ciò in cui credeva indipendentemente da ostacoli burocratici e barriere corporative.
Volendo concludere, al di là degli specifici campi di interesse (siano essi la psicopatologia relazionale, le tossicodipendenze, la narrativa come risorsa tecnica persuasiva...), l'approccio sistemico-relazionale non è soltanto un metodo clinico, ma un modo di guardare il mondo, dove dissentire è un dovere oltre che un diritto, a patto che il dissenso sia intelligente.

1 commento:

  1. Un articolo interessante anche per chi non è del settore...complimenti e buon lavoro a tutta la scuola di Prato.

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