a cura di Valentina Albertini, psicologa psicoterapeuta.
Raccontati
un’altra storia
Il
modello delle Realtà Condivise come approccio narrativo alla
psicoterapia
“Tutti
i Figli dell’Uomo che sono venuti fra noi hanno appreso qualcosa
che solo qui potevano apprendere e che li ha fatti tornare nel loro
mondo profondamente mutati. Erano diventati dei veggenti perché ci
avevano visto nella nostra vera natura. Per questo potevano guardare
il loro stesso mondo e il loro prossimo con occhi del tutto diversi.
Là dove prima non vedevano che banali cose quotidiane, scoprivano di
improvviso miracoli e misteri. Per questo venivano volentieri da noi
in Fantàsia. E quanto più ricco e fiorente diventava il nostro
mondo grazie a loro, tanto meno erano le menzogne nel loro mondo, e
tanto più perfetto esso diventava. Così come due mondi possono
distruggersi a vicenda, allo stesso modo possono vicendevolmente
risanarsi”. “Perché solo un nome nuovo può risanarti?” “Solo
il nome giusto dà a tutte le cose e tutte le creature la loro
realtà”, spiegò lei. “Il nome sbagliato rende tutto irreale.
Questo è ciò che fa la menzogna”.
Michael
Ende, La Storia Infinita
La
realtà la costruiamo a parole. I sociologi Peter
L. Berger e Thomas
Luckmann, nel loro lavoro La
realtà come costruzione sociale (1966), sostengono
che la realtà non è qualcosa a priori, ma viene costruita
come prodotto dell'attività umana, seguendo un processo dialettico.
Definiamo chi siamo condividendo la quotidianità con chi abbiamo
intorno, con le nostre relazioni significative. Questa realtà
condivisa, che garantisce una certa stabilità alla nostra identità
e rende la nostra vita più prevedibile, diventa però col tempo
“dominante”: impedisce infatti a possibili identità alternative,
nascoste nei sottomondi sociologici, di emergere e permetterci di
“raccontarci” in modo diverso. Le persone tendono a confermare la
realtà dominante, per un bisogno naturale di stabilità e
prevedibilità del mondo. Ma cosa succede se quelli che ci vengono
attribuiti sono ruoli rigidi e potenzialmente patogeni? Cosa succede
se intorno a noi tutti iniziano a definirci come “il depresso”,
“l’anoressica”, “il bordeline”?.
Capita spesso che le persone arrivino in terapia portandosi dietro un
ricco carnet di diagnosi, ormai parte strutturante della propria
identità: “dottore, io sono un bipolare!”. E più queste
identità sono condivise e confermate, tanto più è difficile creare
un cambiamento, andare a pescare nei sottomondi sociologici ipotesi
alternative su ciò che siamo e sui perché siamo così.
Il Modello delle Realtà Condivise [1], sviluppato da Gianmarco
Manfrida, partendo dai presupposti sociologici di Berger e Luckmann ,
si interroga proprio sul cambiamento terapeutico e su come un
terapeuta possa aiutare il paziente a “ri-scrivere la propria vita”
[2,3]. Dice Manfrida che nei racconti dei pazienti, sommerse in un
mare di banalità confirmatorie, compaiono a tratti, spesso in modo
incongruo, delle discrepanze, squarci di racconti alternativi
provenienti dai sottomondi sociologici, sfere di dati e di
significati anch’essi socialmente condivisi e confermati, ma
minoritari e relegati nell’ ombra della consapevolezza. Scopo del
lavoro terapeutico è proprio il recuperare questi pezzi di realtà
nascosti e costruire insieme al paziente delle storie alternative,
dei modi di raccontarsi che liberino dalle rigide identità patogene
condivise e portate nella stanza di terapia.
Questo aiutare i pazienti a “riscrivere” le proprie storie è ciò
che inserisce il sintomo all’interno di una rete di significato e
rende il cambiamento terapeutico stabile: “il terapeuta si affianca
al romanziere nel dare grande importanza a una piccola selezione
ricavata dal complesso dei fatti, prendendo ciascun evento non solo
per quello che vale in se stesso, ma anche per il significato che
acquisisce in una prospettiva allargata”[4].
La metodologia narrativa è un orientamento relativamente recente
all’interno del mondo della psicologia: osservando la storia della
psicoterapia si può notare infatti che negli anni [5] l’enfasi si
è gradualmente spostata dalla “verità storica” (che deve essere
scoperta dal terapeuta) alla “verità narrativa” (che terapeuta e
paziente costruiscono insieme). Uno sviluppo narrativo della terapia
familiare ha permesso ai terapeuti di concentrarsi sugli effetti
invece che sulle cause consentendo una maggiore fluidità delle
narrazioni, cioè una loro evoluzione nel tempo, e di rivalutare le
interazioni terapeutiche che diventano “esperienze” e non
semplici raccolte di informazioni [6]. Anche secondo Ricoeur [7],
l’approccio narrativo all’interno delle psicoterapie implica che
il terapeuta costruisca delle storie alternative che ancora non sono
state narrate: la vita è infatti un semplice fenomeno biologico
finché non viene interpretata attraverso una narrazione. “Relazioni
e contesto sono, quindi, gli ingredienti della nostra identità, la
narrazione è la tecnica di cottura universale di noi terapeuti;
utilizziamo poi altre sottotecniche speciali (strutturali,
strategiche, paradossali, delle domande circolari, delle sculture) e
una quantità enorme e variabile di strumenti affascinanti e utili”
[8], ed ogni volta che entriamo nella stanza di terapia non possiamo
esimerci dal narrare qualcosa: la narrazione è, de facto, parte
integrante di qualsiasi terapia [9]. Il termine “narrativo” nella
psicoterapia è utilizzato in due modalità diverse: la prima
consiste nell’analisi del materiale terapeutico in termini
narrativi; la seconda, , insiste invece sulla necessità di proporre
interventi terapeutici che vengono chiamati, appunto “terapia
narrativa”. Caillé sostiene che il racconto è un esempio di
lavoro terapeutico in cui l’estetica della terapia (che si ritrova
nella forma metaforica e spesso poetica del racconto) non è mai fine
a se stessa ma si ricollega a un’etica: “e quest’etica consiste
nella responsabilità del terapeuta di farsi garante di un processo
in cui, contro ogni schema pedagogico o manipolativo, vengano
attivate le risorse creative della famiglia, emergano altre
possibilità di scelta” [10]. Non basta però una semplice
narrazione affinché l’intervento sia realmente terapeutico. È
necessario che le storie alternative che possono emergere con l’aiuto
del terapeuta abbiano delle caratteristiche che le rendano capaci di
produrre un cambiamento [1], e queste caratteristiche secondo il
modello delle Realtà Condivise sviluppato da Manfrida sono la
plausibilità, che consente di proporre il canovaccio della nuova
storia e di definire il contratto che autorizza a lavorarci sopra;
gli aspetti di persuasione, che permettono di rinforzare sul piano
logico ma anche emotivo lo sviluppo della nuova storia; ed infine gli
aspetti di validità estetica, utilizzati allo scopo di rendere il
cambiamento appetibile e desiderabile.
Bibliografia di riferimento
[1] Manfrida, G., La narrazione psicoterapeutica. Invenzione, persuasione e tecniche retoriche in terapia relazionale, Franco Angeli Editore, Milano 1998
[1] Manfrida, G., La narrazione psicoterapeutica. Invenzione, persuasione e tecniche retoriche in terapia relazionale, Franco Angeli Editore, Milano 1998
[2]
White M., Re-Authoring Lives: Interviews and essays, Adelaide,
Dulwich Centre Publications 1995
[3]
White, M. La Terapia come narrazione, Casa Editrice Astrolabio, Roma,
1992
[4]
Polster, E. Ogni vita Merita un romanzo. Quando raccontarsi è
terapia, Casa Editrice Astrolabio Roma, 1988
[5]
Spence, D. Narrative truth and Theoretical truth, Psychoanalytic
Quarterly; Volume 5, 1982
[6]
Papadopoulos
R. K.; Byng Hall J. Voci multiple. La narrazione nella psicoterapia
sistemica familiare, Mondadori editore, Milano 1999
[7]
Ricoeur P., Narrative Identity, in Wood D., Ricoeur, P., Narrative
and interpretation, Routledge, London 1991
[8]
Manfrida, G., L’Artusi, la nouvelle cuisine e la psicoterapia:
conservazione, innovazione e mode in terapia relazionale, in Ecologia
della Mente, Volume 32, Il pensiero Scientifico Editore, Roma 2009
[9]
Zimmerman,
J.L., Dickerson, V.C., Using a Narrative Metaphor: Implications for
Theory and
Clinical Practice, Family Process Volume 33, June 2004
[10]
Caillè P., Rey Y., C’era una volta. Il metodo narrativo in
terapia sistemica. Franco Angeli, Milano 1998.
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