martedì 8 novembre 2016

L’ Artusi, la nouvelle cuisine e la psicoterapia: conservazione, innovazione e mode in terapia relazionale.

Gianmarco Manfrida

Psichiatra, Psicoterapeuta, Psicologo


Fatta l'Italia, erano da fare gli italiani …e Pellegrino Artusi dette il suo contributo raccogliendo in epoca risorgimentale il primo ricettario nazionale, pieno di ringraziamenti a signore di località esotiche come la Sicilia o di casa come la Romagna, che gli fornivano le ricette su cui costruire una salda identità gastronomica italiana  giunta a noi attraverso nonne e madri. Grazie a lui, l’amatriciana è una ricetta nazionale…e sarde in saor e caponata di melanzane fanno  parte della nostra identità condivisa di italiani, confermata da menù di ristoranti, rubriche di cucina e trasmissioni televisive.

Il modello psicoterapeutico familiare-relazionale- sistemico  è  riconosciuto tra quelli fondamentali in Italia e in molti paesi, ma… non sono sicuro che  il popolo dei terapeuti relazionali si sia effettivamente costituito in una sicura identità. Dice Juan Luis Linares che inizialmente ci unificava una posizione alternativa, iconoclasta, di innovatori del settore psicoterapeutico e della salute mentale, ma che basarsi su una identità rivoluzionaria dopo quaranta anni, con capelli bianchi, pancette e acciacchi vari ci rende preoccupantemente simili  agli irriducibili nostalgici dell’ ideologia comunista, che però almeno la loro rivoluzione l’hanno portata avanti più di noi…
 
 In un numero del 2005 del Psychotherapy Networker (non per niente così ribattezzato nel 2001 dall’ originario  “Family Therapy Networker”), dal titolo “Cosa mai è successo alla terapia familiare?” la risposta viene data  già nel sottotitolo, “la rivoluzione degli anni ’70 rientra nei ranghi”. Peter Fraenkel si interroga sul perché: “Forse la terapia familiare non ha compiuto quel che era il suo obiettivo perché il nostro cliente originario- la famiglia- è oggi sottoposta a pressioni e sconvolgimenti indescrivibili. Forse abbiamo semplicemente percorso un ciclo di vita comune per i movimenti visionari – dalla megalomania iconoclasta alla frammentazione interna alla diffusione culturale. Forse il nostro rendimento è stato inferiore alle promesse. Forse l’ industria farmaceutica ci ha schiacciato. Forse siamo caduti preda dell’ illusione del singolo fattore eziologico,guardando attraverso il buco della serratura al microsistema familiare e  ignorando il potere plasmante di sistemi biologici interni e di attaccamenti infantili precoci.” Il risultato è, come dice nell'editoriale Richard Simon, che la terapia familiare ormai  è  “…solo un’altra specializzazione, né più né meno innovativa di uno qualsiasi dei tanti metodi sul mercato della psicoterapia”, e che Fraenkel dichiara di trovare più partecipanti ai seminari che svolge all'estero che negli Stati Uniti.

   Del resto, con gli antichi romani e il rinascimento sono scomparse anche delle tradizioni gastronomiche, e oggi nessuno va pazzo per le murene annegate nel vino o per i pavoni ripieni.
   In Italia e in Europa la situazione è un po’ diversa; forse le tradizioni sociali meno fondate sulla competizione e l’individualismo, forse l’aggiunta trasformista e gattopardesca dei termini sistemico e relazionale ci hanno preservato dall'estinzione? O stiamo ancora elaborando in modo meno rivoluzionario e appariscente, seppur confuso e disordinato, un ricettario originale?
   Guardiamo un po’ le nostre ricette più famose degli ultimi decenni cercando di valutarne il valore, di distinguere ingredienti fondamentali e tecniche di cottura sperimentate da sovrapposizioni superficiali volte a solleticare il gusto dei clienti e da preparazioni surgelate di facile riproducibilità ma bassa qualità. Il primo passo consiste nello scremare gli ingredienti utili da quelli che si sono sovrapposti per mode momentanee; ma che cosa sono,da dove vengono queste mode che dominano per periodi più o meno lunghi all'interno di gruppi e movimenti di ogni tipo,  non solo di psicoterapeuti, ma anche di farmacologi e di scienziati?
   Racconta Giacomo Casanova  che nel 1750 ebbe occasione di assistere alla cena della regina di Francia, attorniata da un gruppo di nobili: “…accompagnando gli occhi col girar lento del capo …scorse in un istante tutto il circolo, poi fermatasi su un signore…,quello forse al quale solo era a lei conveniente far tanto onore, dissegli in chiara voce: “Io credo, signor Lowendal, che una fricassea di pollo sia il migliore di tutti i cibi”. Egli, avanzatosi di tre passi…,rispose con voce sommessa, serio e guardandola fisso, ma col capo chino: “Tale, maestà, è il mio parere”. Detto questo tornò, tenendosi curvo in punta di piedi e camminando all'indietro, al luogo dove era, e il pranzo si concluse senza che si pronunziasse più parola”. Per il mese successivo, Casanova riferisce di aver sempre trovato, dovunque fosse invitato, fricassea di pollo a pranzo, presentata come un piatto di difficilissima esecuzione e raffinatissima qualità…
   Non tutti hanno la fortuna di assistere così direttamente alla nascita di una moda ed io non sono in grado di precisare quali siano le maestà che le impongono in terapia relazionale. Ricordo però molte ricette che hanno spopolato in certi periodi: il capretto espiatorio, la lingua sistemica, l’uso dello spazio, l’estetica del cambiamento, la prescrizione in salsa paradossale, invariabile o di potere, lo sforzo epistemologico, la differenza di genere, la co-cottura (pardon, costruzione…) della realtà, l’ individualità del terapeuta, il joining e la circolarità…
   Ogni gruppo sociale secondo Berger e Luckmann (1966) si identifica in alcune premesse fondamentali condivise (socializzazione primaria) e in convinzioni più specialisticamente differenziate (socializzazione secondaria), che si mantengono ambedue attraverso il meccanismo interpersonale della conversazione banale  quotidiana; questa tuttavia diviene più esoterica via via che il gruppo di appartenenza é più ristretto e bisognoso di una propria definizione rispetto al resto del mondo. Tra esseri umani  utilizziamo un linguaggio appreso da piccoli e modificato congiuntamente nell’ interazione quotidiana, diretta ma anche legata agli stimoli delle comunicazioni di massa (es. “strambare” sanno tutti cosa vuol dire quando c’è la coppa America…) ; tra militari si usa un linguaggio da caserma , ricordo che quando ero ufficiale il cerotto era lo “spara drappo”; tra militari di cavalleria piuttosto che di fanteria abbondano termini legati alla cura degli equini, sono in uso imprecazioni riferite agli escrementi di cavallo e proverbi tipo “alle donne occorre far sentire gli speroni…”.
    Noi psicoterapeuti abbiamo delle conoscenze condivise che sfuggono alla gente normale, ad esempio la differenza tra psicologi psichiatri psicopedagogisti e psicoanalisti; con i nostri clienti creiamo un linguaggio  ricco di termini come “percorso” , “rapporto di dipendenza” e “vissuto abbandonico”, e riconosciamo dai termini usati il genere delle loro precedenti esperienze terapeutiche; a un livello ancor più specifico, parlando tra noi relazionali, arriviamo alle vette dell’esoterismo  utilizzando un linguaggio tecnico comprensibile quasi solo a noi stessi, in cui fanno capolino (dalle prime righe di un articolo)  “mobilità intersistemiche”, “legami vincoli e relazioni” e “appartenenze diverse sperimentate con il passaggio dalla propria famiglia agli altri sistemi relazionali”.
    Non c’è niente di anomalo o di strano in questa “socializzazione” secondaria del terapeuta, che passa attraverso un lungo e impegnativo periodo di training volto ad acquisire con molti sacrifici un senso di appartenenza e un linguaggio condiviso, SALVO il rischio di perdere capacità di condividere  il linguaggio degli estranei al proprio circolo, diventando un po’ troppo autoreferenziali…magari senza nemmeno accorgersene. A questo rischio  fa da contrappasso quello di vedere il proprio  linguaggio così banalizzato e popolarmente intelligibile (Moscovici, 1988)  da non consentire più una identità del gruppo: forse quello che  è capitato alla terapia familiare negli U.S.A.
   E quale sarebbe allora  la funzione delle mode all’ interno dei gruppi come il nostro? Probabilmente quella , rinnovando periodicamente aspetti del linguaggio esoterico, di mantenere l’ identità del terapeuta, preservandola dalla volgarizzazione… Se si eccede d’altra parte in chiusura e incomprensibilità, attraverso un alternarsi di mode che non lasciano tracce se non nella memoria degli anziani, si perde di rilevanza e si rimane un gruppo ristretto e socialmente poco incisivo.
    Inoltre, le mode possono aprire dialoghi con altri gruppi, creando strutture di sostegno e legittimazione  reciproche: la prima cibernetica con le scienze della comunicazione (parole chiave: doppio legame,capro espiatorio, assiomi della comunicazione,parlare sistemico,funzione del sintomo…), la seconda con i biologi e i costruttivisti (conversazione, co-costruzione della realtà, interazione non istruttiva…), ora anche il termine cibernetica è passato di moda però arrivano  la neurobiologia delle relazioni e i neuroni specchio (il dessert: macedonia con neuroni spicchio?)
   
   Ad inventare mode e sviluppare linguaggi esoterici noi terapeuti relazionali  siamo sempre stati anche troppo bravi, al punto di vivere in una allegra anarchia in cui  tante scuole e sottoscuole parlano idiomi e dialetti non sempre reciprocamente del tutto comprensibili ; se abbiamo peccato, non è stato nel senso di una volgarizzazione e perdita di specificità all’ americana, ma in quello della chiusura e, peggio, della scelta della instabilità delle idee  per sfuggire alla banalizzazione.   Sarebbe opportuno però che alla fine qualcosa restasse di questo succedersi di periodi in cui parole come epistemologia, o pragmatica, o comunicazione o narrazione hanno riempito i nostri menù…in modo che chi cerca un ristorante o una scuola di cucina familiare-sistemico-relazionale sia più garantito e chi fornisce il servizio più riconosciuto e citato nelle guide gastronomiche: direbbero Berger e Luckmann, in modo che il tipo di lavoro che facciamo sia più inserito nella realtà quotidiana.
   Come sappiamo, la realtà sociale e individuale della vita quotidiana è riaffermata costantemente attraverso l’ interazione con gli altri:  la conversazione è lo strumento che preserva la realtà, indebolendo o eliminandone alcuni aspetti, dando apparente consistenza e stabilità ad altri.
-          Ciao cara, vado al lavoro, ci vediamo stasera
-          Bene, tesoro, prendi il caffè e non dimenticarti la borsa.
Questa conversazione banalissima conferma che c’è al mondo una scansione condivisa del tempo, un qui ed un altrove, un ruolo in casa ed uno nel mondo, qualcuno che si preoccupa per il tuo benessere e sul cui affetto si può contare e che, mica poco, ti garantisce di rivederti la sera …E’ possibile trovare molti altri elementi in questo breve interscambio che ci conferma la continuità e prevedibilità del mondo e la nostra stessa identità: una storia condivisa che ci consente di sopravvivere dando per scontato che non ci saranno terremoti, che sappiamo dove saremo e con chi stasera, che nella vita abbiamo un senso e degli affetti garantiti…
-          Ciao cara, vado al lavoro, ci vediamo stasera
-          Bene, tesoro, prendi il caffè e non dimenticarti la mitragliatrice.
Quest’ ultima parola  dà a molti di noi un improvviso senso di vertigine e un malessere allo stomaco: si può pensare ad un errore di stampa e rileggere la frase, tanto si esce improvvisamente e bruscamente da una realtà quotidiana banale rassicurante. Poi iniziamo a cercare alternative di senso che riportino il mondo sotto controllo, frugando nei sottomondi sociologici, altre realtà condivise ma estranee alla coscienza immediata: sarà un soldato in Iraq? O un poliziotto? O qualcuno che deve portare un regalo a un bambino? O si tratta di un invito metaforico ad essere più aggressivi a qualche incontro importante? Andiamo a frugare in quello che abbiamo letto sul giornale, visto alla TV, sentito dire da un conoscente, conservato tra i ricordi di scuola, con impegno, finché non siamo soddisfatti di aver restituito un senso al mondo, che ci piace pensare solido, duro, controllabile, mentre basta il cambiamento di una parola a rivelarcene l’ instabilità e l’ imprevedibilità.
Le storie che ci portano i nostri pazienti, individui e famiglie, sono storie quotidiane banali condivise socialmente e confermate attraverso la conversazione corrente, noncurante, dalle figure significative: i racconti con cui si presentano sembrano fatti per scoraggiare noi terapeuti. “Da quando era piccino…” “Mi ha visto il prof. Granprestigio che mi ha diagnosticato…” “Sono sintomi incontrollabili…”.
    E’ possibile per un terapeuta confermare la realtà quotidiana che gli viene presentata, magari aiutando a sopportare alcuni aspetti insoddisfacenti, consolando e assistendo; può anche portare dei cambiamenti ampliando una realtà troppo restrittivamente banale; in alcuni casi si contribuisce perfino a mutare radicalmente la realtà soggettiva, con un processo di ristrutturazione che trasporta elementi di sottomondi sociologici alternativi nella realtà dominante.
   Ma anche i terapeuti hanno bisogno di una realtà dominante, condivisa dalla loro comunità, abbastanza solida da dare un senso di identità e di continuità, se vogliono affrontare senza esserne assorbiti le storie iperconfermate che vengono loro proposte; al tempo stesso, devono avere accesso abbastanza facile a sottomondi sociologici alternativi per valorizzare le specificità delle storie che si trovano davanti,senza riproporre in modo ripetitivo, noioso e rigido  interventi che finirebbero  nel ridicolo (vedi prof. Eisendrath!).
  Le nostre premesse condivise, quelle che strutturano la nostra realtà dominante di terapeuti, che trovano continue conferme nella conversazione banale con i nostri colleghi e che tentiamo di passare ai nostri clienti individuali e familiari (Bertrando , Defilippi 2005), non riguardano l’aspetto familiare e non necessariamente quello sistemico, ma sempre quello relazionale, interpretato in un contesto di realismo; sono le relazioni reali,seppur magari conseguenti a modalità relazionali introiettate da tempo, il nostro ingrediente di base.
   Se poi vogliamo ricercare delle modalità di cottura tipiche, quella costruzionista sociale narrativa è la sola (Boscolo, 2008) che possa collegare livelli individuali,anche intrapsichici, e relazionali attraverso l’idea di una realtà comune creata convenzionalmente dagli esseri umani e confermata costantemente attraverso il linguaggio, fondata su elementi banali che danno stabilità e al tempo stesso suscettibile di improvvisi rivolgimenti attraverso la valorizzazione di alternative sempre presenti nei sottomondi sociologici.
   Relazioni e contesto sono quindi gli ingredienti  della nostra identità, la narrazione è la tecnica di cottura universale di noi terapeuti; utilizziamo poi altre sottotecniche speciali (strutturali, strategiche,  paradossali,delle domande circolari, delle sculture…) e una quantità enorme e variabile di strumenti di lavoro affascinanti,utili seppur alcuni sopravvalutati,come schiacciaagli, pelapatate ricurvi, set di lame scintillanti inserite in  scenografici  blocchi di tek… trovate pure voi i corrispondenti nel nostro presente e passato di terapeuti relazionali!

   Per quanto riguarda gli sviluppi futuri della nostra cucina psicoterapeutica, vi sono in questo momento grandi potenzialità e grandi rischi. Le prime sono aperte dallo sviluppo delle neuroscienze, che ha portato al concetto di una mente “relazionale” anche su base biologica; i neuroni specchio in fondo consentono di mettersi nelle scarpe degli altri e di vedersi dall'esterno, due attitudini molto psicoterapeutiche e ricollegabili ad un addestramento ad uscire dalle storie banali quotidiane, a cui corrisponderebbero percorsi sinaptici rigidi, per trovare alternative nei sottomondi sociologici grazie ad una attività neuronale autosservativa, autocritica e autocorrettiva. Ci vorrà ancora molto perché sia possibile seguire l’effetto di una parola, di un atteggiamento,di un intervento specifico sui processi neuronali di un altro essere umano; al momento le correlazioni psicologiche e biologiche sono certe ma generiche, tutt'altro che specificamente descrivibili in dettaglio.
    Quanto al rischio che vedo profilarsi, è la ricerca di una cucina fondata su ricette semplificate e ingredienti surgelati o precotti: sempre più giovani allievi chiedono indicazioni spicciole, tecnicuzze, per condurre la seduta, pressati da un mercato competitivo e angosciati dall'ansia di fare qualcosa che rassicuri loro e i pazienti che stanno facendo terapia…Mi capita di leggere tesine,  resoconti e articoli in cui il processo terapeutico viene ignorato, con una rinuncia al senso della storia presentata e alla sua ricostruzione, sostituito da un programma che prevede tre incontri di joining, tre di genogramma, quattro di sculture, tre di presentazione di fotografie… e così via finché si può. L’eccesso di pragmatismo e di attenzione sul sintomo e sul qui ed ora probabilmente non è stato estraneo all'esito deludente a cui sono andate incontro le terapie familiari negli U.S.A.; è possibile che ne veniamo contagiati anche in  Europa?
    In supervisione indiretta, una allieva promettente e aggiornata mi riferisce di una sua paziente anoressica da 15 anni, collegando l’esordio sintomatico all'inizio della tossicodipendenza del fratello; porta a sostegno  tre sedute di genogramma fotografico in cui ha ricostruito la storia della famiglia…poi emerge che 15 anni prima il padre se ne era andato di casa per mai più ricomparire e che i problemi della paziente e del fratello erano conseguenti a questo fatto!
   Se alla richiesta di mercato, sia per la terapia che per la formazione dei terapeuti,viene data una risposta tecnica banale rassicurante (faccio/insegno tecnica per esser sicuro che faccio terapia/formazione, me lo confermo e faccio confermare difendendo in modo condiviso una realtà dominante …) si perde il contatto la con specificità delle storie e  con i sottomondi sociologici dei clienti e degli allievi…e anche,alla fine, efficacia,finendo per assomigliare al dr. Eisendrath!
    Forse la psicoterapia è l’ultima attività magica, che alcuni di noi praticano usando se stessi e la parola per cambiare lo stato della realtà; ma anche se fosse più spesso un gioco illusionistico, una magia di seconda scelta, che non cambia la sostanza ma muta l’apparenza, i cui trucchi però sono meno faticosi da fare e da insegnare, c’è differenza anche nell'effetto dei giochi di prestigio…David Copperfield fa degli splendidi spettacoli, per i quali ha necessità di supermacchine, collaboratori, giochi di luce e attrezzature fantascientifiche,ma personalmente preferisco chi esegue un trucco in modo semplice, spontaneo, naturale, alla fine di una cena o di un discorso, con tre bicchieri e un po’ d’acqua,così….



Bibliografia

Berger P.L., Luckmann T., (1966),  The Social Construction of  Reality, Garden City, New York, Doubleday and Co.; ed. it. La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1969
Bertrando P., Defilippi O.M., (2005), “Terapia sistemica individuale: effetti di una tecnologia del sé”, Terapia Familiare, 78, pp. 29 – 52.
Casanova G., (1993), Il duello, Vimercate, Meravigli.
Fraenkel P., (2005), “Whatever Happened to Family Therapy?”, Psychotherapy Networker, 29, 3, pp.30 – 40
Manfrida G.M., (1995), “Teorie di giornata, terapie di annata: una critica alla superficialità delle mode in terapia familiare”, Terapia Familiare, 47, pp. 63 – 65
Manfrida G.M., (1998), La narrazione psicoterapeutica: invenzione, persuasione e tecniche retoriche in terapia relazionale”, Milano, F. Angeli
Mosconi A., Peruzzi P., (2008), “Psicoterapia individuale sistemica: intervista a L. Boscolo”, Connessioni, 20, pp. 11 – 26
Moscovici S., (1988), “Le rappresentazioni sociali”, in Ugazio V., a cura di “La costruzione della conoscenza”, Milano, F. Angeli
Simon R., (2005), “From the editor”, Psychotherapy Networker, 29, 3, pp. 2


Relazione per convegno S.I.P.P.R.,  Montegrotto Terme,  Ottobre 2008

Nessun commento:

Posta un commento