Gianmarco Manfrida
Psichiatra, Psicologo, Psicoterapeuta
Che cos'è il
fondamentalismo?
Una definizione dal Dizionario di Filosofia Garzanti:
“Oggi il termine fondamentalismo si riferisce soprattutto a
quelle tendenze emergenti – nel cristianesimo, nell'ebraismo e nell'islamismo –
caratterizzate da una reazione contro la modernità. L’accettazione, se pur
critica, del processo di secolarizzazione, come gli sforzi del pensiero e della
prassi religiosi di dare una risposta nuova agli interrogativi e ai problemi
del mondo moderno sono considerati dai fondamentalisti un tradimento del dato
rivelato e dunque causa dei mali del presente ”.
E il solipsismo?
“Dottrina filosofica che sostiene l’evidenza assoluta, ma
anche invalicabile, dell’io individuale (‘solus ipse’) o dei contenuti di
coscienza. Ne deriva un idealismo soggettivo che nega la realtà (o la
possibilità di dimostrare o attingere la realtà) del mondo esterno e degli
altri soggetti.”
E che cosa c’entrano queste definizioni contrapponibili (il
mondo è come tradizionalmente descritto da altri-il mondo è come lo vediamo
noi) con i terapeuti relazionali? Non saranno solo una parola di attualità
politico-sociale il primo, una vuota esibizione di cultura il secondo?
Credo proprio di no, e con questo intervento ho intenzione
di sostenere che l'antinomia fondamentalismo-relativismo è un elemento
costituente di tutte le formazioni e attività psicoterapeutiche.
Inizio con il presentarvi un fondamentalista.
Come, fondamentalista Beethoven, il genio musicale autore dell’
Inno alla Gioia, simbolo dell’ Unione Europea? Pare incredibile, eppure
Beethoven è stato considerato un fondamentalista ai suoi tempi e anche in
epoche a noi molto più prossime, naturalmente non nel senso religioso, ma di un
personaggio che vuole tener fede con eccessiva rigidità a certi ideali, che
considera universali e fondamentali. Ve lo dimostro.
2 Settembre 1812: lettera di Goethe, che ha frequentato
Beethoven in un soggiorno nella località termale di Toplitz, all’amico Zelter:
“Ho imparato a conoscere Beethoven. Il suo talento mi ha
sconvolto; sfortunatamente, però, egli è una personalità del tutto senza freni.
Senza dubbio, non ha torto a trovare il mondo detestabile; però, così facendo,
non lo rende affatto migliore né per sé né per gli altri. ”
9 agosto 1812: lettera di Beethoven agli editori Breitkopf e
Hartel:
“A Goethe garba troppo l’aria di corte, più che a un poeta
non si convenga.”
Luglio 1812: lettera, di discussa attribuzione, di Beethoven
a Bettina Brentano, fan decisa a legare il suo nome nella storia a quello dei
due grandi:
“Carissima e buona amica, re e principi possono ben creare
dei professori e dei consiglieri segreti e appendere loro titoli e decorazioni,
ma non possono creare dei grandi uomini, degli spiriti che si innalzano al di
sopra della turba del mondo.... Quando due uomini come Goethe ed io si trovano
insieme, questi gran signori debbono rendersi conto di quel che è per noi la
grandezza. Ieri Goethe ed io, tornando a casa, incontrammo la famiglia
imperiale al completo; la vedemmo venire da lontano e Goethe lasciò il mio
braccio per fare ala; ebbi un bel dirgli che non volevo, ma non mi riuscì di
farlo muovere. Io allora mi calcai il cappello in testa e col cappotto
abbottonato e le braccia conserte continuai il mio cammino. Molte persone del
seguito si sono scostate al mio passaggio, l’arciduca Rodolfo si è tolto il
cappello, e anche l’Imperatore mi ha salutato per primo. Tutta la processione è
sfilata davanti a Goethe che stava col cappello in mano in un profondo inchino.
Dopo gli ho dato una lavata di capo, non l’ho scusato: gli ho rimproverato
tutti i suoi torti.”
1990: Milan Kundera, in “L’immortalità”, riprende questa
storia e ne dà una versione
postmoderna, di epoca diffidente per le proposizioni morali
e refrattaria ai grandi ideali:
“L’ originale di questa lettera, datata 1812, non è mai
stato trovato...Ma anche se la lettera era un falso o lo era solo in parte,
l’aneddoto affascinò tutti e divenne famoso. E di colpo tutto fu chiaro:…..mentre
Beethoven, il ribelle, va avanti con il cappello ben calcato sulla fronte e le
mani dietro la schiena, Goethe, il servile, si inchina umilmente al margine del
viale.”
Anche i
contemporanei del resto trovavano Beethoven eccentrico e “diverso”.
Da giovane viene così descritto da una pianista: “ Di solito
quando veniva da noi faceva prima capolino all'uscio per assicurarsi che non
vi fossero persone antipatiche. Era piccolo, massiccio, brutto, pieno di
cicatrici di vaiolo, capelli nerissimi, vestito molto comunemente, del tutto
privo di quell'accuratezza d’uso nei nostri circoli. Poi parlava un dialetto
fortemente renano con espressioni non molto scelte: in complesso nulla,
all'esterno, di qualche compitezza, anzi poco gentile nei movimenti e nel
contegno.”
Negli ultimi anni peggiora: “Non picchiare la cuoca, potresti avere
delle noie con la polizia”, scrive un amico su un quaderno a Beethoven ormai
sordo: altri comportamenti sono altrettanto eccentrici, dalla quantità
incredibile e continua di traslochi al tirare le uova andate a male contro i
muri di casa al distillare il caffè in un alambicco di vetro al camminare per
le strade sporco e trascurato, gesticolando e parlando da solo, all'uscire
raramente dal suo alloggio, che il raffinato Rossini descrive con toni di
orrore e il cortigiano Cherubini definisce “una tana per gli orsi”. O compone o
è indaffarato tra pentole e pentolini, con addosso una vecchia veste da camera,
la testa coperta da un berretto da notte e ciuffi di cotone imbevuti d’olio
negli orecchi; ma sul tavolo sta sempre un busto di Bruto, l’eroe tirannicida
per obbligo morale.
Il commento di un critico (Mugnaini), a
indicare la novità assoluta del compositore: “Se Mozart, non diversamente da
Goethe, sembra mettere in una forma le immagini della sua fantasia e inserirle
entro schemi compositivi i quali, pur animandosi al contatto di quella viva
materia, conservano alcunchè di precostituito e di astratto, Beethoven plasma
nella Sonata una nuova forma a immagine e somiglianza dell’idea con cui egli
totalmente si identifica.” Alle idee si
deve adeguare la forma, non l’inverso…una derivazione filosofica rivoluzionaria
per l’epoca. Prima la sostanza, poi l’espressione…si comprende come le
partiture autografe di Beethoven siano piene di correzioni mentre quelle di
Mozart quasi perfette, come la composizione sia uno sforzo continuo anche
quando si passeggia, con l’idea musicale che viene continuamente scavata e
lavorata per trovare l’espressione che la renda, anzi la RENDA, in tutta la sua
pregnanza, immediatezza, forza intellettuale ed emotiva. Prima c’è l’idea, il
resto segue; come per Kant, una passione filosofica di Beethoven, prima ci sono
le categorie, poi prendono forma i pensieri.
Da dove viene questo orgoglioso bisogno di coerenza?
Nel 1801 Beethoven è affermato, come scrive all'amico medico
Wegeler:
“Le mie composizioni mi rendono molto…non si discute più con
me: io chiedo e mi si paga…” Nella stessa lettera appare però una
preoccupazione: “Un demone invidioso, la mia cattiva salute, mi ha gettato una
mala pietra tra i piedi; voglio dire che da tre anni il mio udito si è fatto
sempre più debole…le mie orecchie ronzano e rombano di continuo giorno e notte.
Conduco una vita di miseria; da quasi due anni evito ogni compagnia, perché non
mi è possibile dire alla gente: sono sordo. Se avessi qualche altra
professione, la cosa sarebbe più facile, ma con la mia professione questa è una
condizione terribile! Ora, cosa accadrà, lo sa il Cielo”.
Del 1802 è una
profonda crisi testimoniata da una lettera ai fratelli in cui possono anche
adombrarsi idee di suicidio: il famoso Testamento di Heiligenstadt.
In realtà Beethoven
non è rassegnato, e questa lettera resta in un cassetto segreto dello scrittoio
fino all'indomani della morte, il 23 marzo 1827. Da questi anni di crisi,
testimoniati anche da una riduzione della produzione, Beethoven esce
appigliandosi alla filosofia Kantiana: l’uomo deve superare se stesso, deve
andare al di là dei propri limiti, non disperdersi nella quotidianità
superficiale (per lui del resto impossibile) ma concentrarsi sul raggiungimento
di una meta ideale, che per lui è una produzione artistica capace di
trasmettere il valore di un’idea filosofica romantica di fratellanza e di pace
universale. Con espressioni diverse, dall'intimo allo spettacolare, e con mezzi
formali diversi, Beethoven si impone di testimoniare moralmente il dovere di
trascendere i propri limiti a livello individuale e universale del genere umano.
Tutto quel che fa si collega all'idea di avere una missione da compiere, e
questa idea lo rende anche ostinato, dogmatico con il nipote, lamentoso e
litigioso, autorizza anche i suoi scoppi d’ira: si può ben essere misantropi
per troppo amore dell’umanità! E vivere in una tana da orsi se quel che conta è
lo spirito e quel che si produce; e avere il diritto di tenersi il cappello in
testa di fronte all'imperatore per punto di impegno, invece di comportarsi
civilmente come Goethe, che non ha tanta necessità di coerenza tra moralità
personale e una professione di fede nel superamento dei limiti, nel Faust,
simile a quella di Beethoven.
E’ per questo aspetto “ideologico” intransigente e per il mito
che vi si crea intorno, ma che non è infondato, per la presenza del suo busto
come ispiratore ideologico sul pianoforte di Schroeder nei Peanuts, che
Beethoven attraversa periodi storici in cui è antipatico: a Kundera, ad
esempio, ma anche ad Auric, Janacek e Ravel che nel primo dopoguerra espressero
ciascuno a modo suo pesanti considerazioni sui significati extramusicali della
sua musica, accusandolo di aver coperto le deficienze sul piano compositivo con una immagine di rivoluzionario
impegnato. Forse è il mondo che alterna
tra leggero e pesante, tra vivere quotidiano e ideale, e in genere ai periodi
di impegno seguono altri di disimpegno: Ravel e gli altri parlavano nel 1922,
dopo la prima guerra mondiale, e oggi Beethoven sconta i successi degli anni
’70, dominio delle interpretazioni ideologizzate, con nuove filologicamente
perfette nella forma e inconsistenti nella sostanza, il contrario di quel che
desiderava l’autore.
Goethe, Kundera,
Ravel ecc. sono dunque dei codardi rinunciatari? No, sono persone che non si
danno troppa importanza, realisti che ne hanno viste tante da essere divenuti
diffidenti di fronte alle pretese di cambiare il mondo. Pensano che ognuno ha
il suo punto di vista, che si può dire quel che si pensa senza sentirsi
obbligati ad esserne sempre all’altezza, che essere educati è già qualcosa e
levarsi (o mettersi) un cappello non è poi una tragedia morale, che non far
male è già molto, far bene ad altri difficile, rischioso e un po’ presuntuoso.
Non saranno solipsisti, ma certo non sentono il bisogno di Beethoven di trovare
un senso alla vita per superare il dolore. Una necessità che però noi troviamo
nei nostri pazienti, e che ci costringe a prenderci carico spesso non solo dei
loro sintomi, ma delle loro vite.
Eccoci finalmente
al dilemma del terapeuta: essere un sospetto fondamentalista, che tenta di
trasmettere dei punti di vista propri e dei valori che ritiene validi in
generale e utili nel caso specifico, o un distaccato solipsista, convinto che
non è possibile, certo non corretto, convincere altri a cambiare le proprie
idee, e che al massimo può essere legittima la
curiosità? La terapia è sempre possibile ed il suo successo
responsabilità del terapeuta, come diceva da fondamentalista Don Jackson negli
anni ’60, o è solo conversazione da cui ci si augura emerga, per puri motivi
interni al sistema familiare e indipendenti dal terapeuta, un qualche
imprevedibile cambiamento positivo? Riconosciamo nella prima posizione quella
di un modernismo fiducioso nella razionalità e nell’impegno umano, ansioso di
superare rapidamente i limiti delle situazioni, espressione delle origini delle
terapie relazionali, la cui bibbia non per nulla è la Pragmatica della
Comunicazione Umana con i suoi rigorosi assiomi della comunicazione; nella
seconda i dubbi di un solipsismo postmoderno che fornisce maggiori complessità
teoriche ma poche tecniche pratiche, dominante come seconda cibernetica, sulla
scia delle teorie di Maturana, Varela e Prigogine, dagli anni ’80,
in cui si postula (Goolishian) che è sempre e solo il
paziente, individuo o famiglia, l’autore responsabile di qualsiasi eventuale
cambiamento.
Anche in psicoanalisi del resto da una iniziale fase
trionfalistica, caratterizzata da analisi brevissime e successi clinici
eclatanti, si passò dopo alcuni anni a pretese più moderate e ad analisi
teoricamente interminabili. Come mai questa oscillazione così frequente in
psicoterapia tra onnipotenza e impotenza, responsabilizzazione e
deresponsabilizzazione del terapeuta, pretese fondamentaliste e relativismo
radicale fino a rischi solipsistici?
Credo che la risposta sia nell'ambito clinico e nella prassi
quotidiana: pensare che tutto è possibile o che niente dipende da noi sono
maniere equivalenti per sollevarci dal confronto costante caso per caso e
minuto per minuto con l’impegno ed i limiti della nostra capacità di curare,
cioè cambiare, gli altri.
Nella realtà di tutti i giorni infatti noi abbiamo un
peso, variabile, per chi ci cerca; abbiamo delle capacità di persuasione, di
indirizzo, di influenzamento, anche se limitate volta per volta da fattori
storici e contestuali aleatori che riguardano i pazienti e noi stessi. Le mie
preoccupazioni sentimentali possono, ad esempio, influenzarmi nella capacità di
rispondere ai bisogni di attenzione del cliente; la impossibilità di
coinvolgere i suoi genitori per qualsiasi motivo, fisico o relazionale, può
impedirmi di prendere alcune strade. Non esistono regole generali, fondamenta
create da altri su cui appoggiarsi con sicurezza; ma nemmeno vogliamo e
possiamo credere che la nostra presenza sia solo una occasione fortuita per il
possibile, nemmeno probabile, cambiamento di una inconoscibile e
incondivisibile realtà altrui. Siamo costretti lavorando a prendere ogni volta
una posizione morale fondata sull'autocritica e sull'assunzione di
responsabilità: a porci domande stressanti e logoranti di questo tipo: “Sto
facendo tutto quel che posso per queste persone? Riesco a indirizzarle nella
direzione che a me pare giusta per loro? Sono sicuro che non sia tale solo per
me e che sia una soluzione possibile per loro? Sono certo che questa terapia
risponde ai loro interessi prima che ai miei? Lascio comunque a loro l’ultima
parola sulle scelte di vita, senza negarmi la parte che ho avuto nel suggerire
più o meno esplicitamente altre soluzioni? Ho utilizzato tutte le tecniche a
mia disposizione per indirizzarli efficacemente ma non forzatamente dove
ritengo che sia meglio per loro? Ho fatto dall'inizio un contratto anche
implicito in cui ho detto come vedevo la
situazione e ho ottenuto fiducia e autorizzazione a cambiarla come
genericamente concordato insieme?”
Non solo è una gran quantità di domande, ma sono tutte da
portarsi dietro costantemente e da aggiornare ogni poco: non per nulla la vera
psicoterapia è un mestiere solitario, coraggioso e a rischio di burn-out,
e la rara qualità che colpisce in una
personalità terapeutica è la capacità di farsi carico delle situazioni, di
essere interessati e di partecipare attivamente ma con rispetto alla vita
altrui.
Per lavorare da terapeuti, insomma, ci vuole una grande
passione per la responsabilità, che qualcuno può vedere anche come bisogno di
sentirsi utili e importanti, che i fondamentalisti possono criticare come
eccesso individualistico e i solipsisti come pretesa di onnipotenza, ma che è
di grande conforto a chiunque abbia bisogno di aiuto. Se un tubo in casa perde,
non cerchiamo il massimo esperto di tubazioni o l’impresa più affermata, ma
l’idraulico affidabile che ci garantisce di occuparsene nel modo più rapido ed
efficace; e si tratta solo di un tubo, figuriamoci quando i problemi sono di
vita e di relazione.
Negli ultimi anni le terapie relazionali stanno tornando
alla clinica e sembrano meno ansiose di appoggiarsi a modelli teorici
fondamentalisti o radicalmente costruttivisti; non so se l’ultramoderno sarà il
prossimo modello ispiratore, ma mi fa piacere il recupero che propone di una
dimensione etica pratica, concreta, attualizzata nella vita, e nelle terapie,
di tutti i giorni, come pure la proposta di credere in alcuni principi e di
agire conseguentemente pur senza prescindere da un realistico relativismo.
Spero che questo approccio che ci sfida ad accettare i nostri limiti ed evitare le lusinghe alterne del
fondamentalismo e del solipsismo, possa esserci di aiuto per conquistare, come
dice Nikos Katzantzakis, “quel potere
dell’anima che non si degna di ingannare se stessi o altri ed ha sempre il
coraggio di guardare in viso la Dea che non concede favori e non siede ai piedi
di nessuno, la dea senza sorriso: Responsabilità"
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