giovedì 20 luglio 2017

Farmaci e psicoterapia... riflessioni dopo un recente corso di formazione

di Gianmarco Manfrida, psichiatra e psicoterapeuta


Per essere medico psichiatra e anche psicologo e psicoterapeuta ho dovuto fare una LUUUUNGA strada, piena di viaggi, esami, tesi da scrivere…ma non l’ho mai considerato un percorso inutile. 

Il buon medico non prescrive farmaci per la malattia ma per il paziente: tiene conto del suo organismo nel complesso, ma anche della sua situazione di vita per decidere che farmaci prescrivere. 
A un ottantenne depresso con problemi cardiologici prescrive alcuni serotoninergici piuttosto che altri, si informa se vive solo o coi familiari, li coinvolge per assicurarsi un controllo nei primi giorni di terapia in cui ancora gli effetti non sono stabili: se invece il paziente vive solo concorda visite più frequenti, si informa se ci sono parenti o altre persone coinvolgibili in un lavoro di assistenza.


Fa cioè attenzione al contesto, modula l’intervento sulle risorse e sulle fragilità del paziente, coinvolge altri nella terapia come uno psicoterapeuta relazionale. 
Purtroppo si è creata una spaccatura tra psicologi psicoterapeuti e medici psichiatri, dovuta a una deriva biologica della psichiatria negli anni tra il 1980 e il 2000, e a una sorta di posizione contestataria “alternativa” di molti psicologi rispetto alla figura del medico, vista come più autorevole. Oggi assistiamo ad aperture maggiori: da parte degli psichiatri viene riconosciuta efficacia alla psicoterapia, almeno per i modelli che maggiormente conoscono come quello cognitivo-comportamentale, certamente non l’unico efficace come viene proposto anche nei bugiardini dei farmaci. 
Dalla parte degli psicoterapeuti vi è la ricerca di medici che possano prescrivere farmaci ai pazienti agli inizi di una psicoterapia o in un momento in cui per tanti possibili motivi non basta la relazione e la cura con la parola a ridurre la sofferenza o ritrovare l’iniziativa. In realtà sia le parole che i farmaci si rivolgono allo stesso bersaglio, sono capaci di modificare, le prime in modo più selettivo e specifico, i secondi più grossolanamente, il pensiero e le emozioni delle persone
Se si pensa a una pera o a una mela, saranno diversi i neuroni coinvolti e le sinapsi collegate: con le parole posso far pensare all’una o all’altra, ma con un tempo di azione più lungo, con i farmaci posso solo far pensare di più o di meno ma in modo rapido ed economico. Posso sostenere l’umore depresso di un paziente anche solo con visite frequenti senza impiegare farmaci, ma se il farmaco lo farà in un mese consentendoci di lavorare su altri argomenti più alla svelta e con meno incontri, non converrà impiegare tutte e due le risorse? Il vero problema è saper impiegare non solo correttamente, ma bene sia le parole che i farmaci…ma questo è argomento per un altro post!



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